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Genocidio: “il crimine senza nome”

di Marcello Flores

di Marcello Flores D'Arcais. Storico, esperto di genocidi. Già docente di Storia contemporanea e Storia comparata all'Università di Siena.

Intervista a cura di Nadia Addezio e Michele Lipori. Redazione Confronti.

Nel mese di aprile ricorrono alcuni tragici anniversari della storia dell’umanità: il genocidio armeno (24 aprile 1915), quello cambogiano (17 aprile 1975) e infine quello ruandese (7 aprile 1994). Episodi che hanno in comune l’efferatezza con cui sono stati commessi, oltre che l’imponente costo umano. Si stima, infatti, che siano tra 1,5 e 3 milioni le vittime del genocidio cambogiano, circa 1,5 milioni quelle del genocidio armeno e oltre un milione i morti causati del genocidio in Ruanda. Crimini che, al di là di ogni ricorrenza, riportano alla memoria il “peggior massacro in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale”, il genocidio di Srebrenica (11 luglio 1995) in cui vennero falcidiate oltre 8mila persone. Se l’identificazione del temine “genocidio” (che Churchill definì “il crimine senza nome”) proviene dall’osservazione della dinamica dei crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale e delle “giustificazioni” che hanno dato i carnefici alla Shoah, ancora oggi non è sempre facile operare distinzioni tra “genocidio” e gli altri crimini internazionali, non meno rilevanti e condannabili. Sono ancora molte, infatti, le difficoltà che si incontrano nel ricomprendere nella fattispecie di “genocidio” eventi che paiono esserlo a tutti gli effetti. È il caso della persecuzione della minoranza musulmana rohingya in Myanmar, per la quale il Gambia ha fatto ricorso alla Corte internazionale di Giustizia (2019) per le violazioni della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del ‘48, richiedendo di indicare misure provvisorie. Ma anche il caso della minoranza musulmana degli uiguri nel Nord-Ovest della Cina soggetta a detenzione in campi di rieducazione. Un caso che rientrerebbe nella fattispecie di “genocidio culturale”, non riconosciuta dalla suddetta Convenzione. 

Infine, la guerra in Europa attualmente in corso impone una riflessione approfondita sulle dinamiche della guerra e sull’individuazione di quei crimini che non possono essere considerati dei semplici “effetti collaterali”. Ne abbiamo parlato con Marcello Flores D’Arcais, storico tra i massimi esperti e studiosi di genocidi. Sul tema ha pubblicato svariati libri, come Il genocidio degli armeni (2006), ad oggi uno degli studi più esaustivi su un genocidio che ancora oggi ha implicazioni politiche a livello internazionale nel suo riconoscimento, e Il genocidio (2021), un’analisi su cos’è un genocidio, ripercorrendo avvenimenti che hanno ferocemente segnato la Storia e riconoscendo la complessità nell’intendere un crimine come tale.

Quando e in che contesto nasce il crimine di genocidio?

La teorizzazione del concetto di genocidio si deve a un singolo giurista, Raphael Lemkin, che riporta per la prima volta il termine nel suo libro Axis Rule in occupied Europe, pubblicato nel 1944, mentre la Seconda guerra mondiale era ancora in atto. Scopo dell’autore era raccogliere materiale giuridico per documentare l’occupazione nazista dell’Europa e raccontare i crimini ad essa connessi, soprattutto per quel che riguardava la Shoah, di cui iniziavano a emergere documenti e testimonianze.

Il termine univa la parola greca ghènos (“stirpe”) e il suffisso latino -cidere (da caedĕre, “uccidere”) ed era inteso come uno sterminio attuato nei confronti di un gruppo umano in particolare, con l’intento di indicare una categoria specifica per il Diritto internazionale. Questa intuizione si basava su riflessioni precedenti che i giuristi avevano iniziato a elaborare intorno agli anni Trenta sulla scia degli accadimenti della Prima guerra mondiale, anche se allora il termine prescelto per crimini di quel tipo era “barbarie”, ben più sfuggente. Tuttavia, il Tribunale di Norimberga non adotterà la categoria “genocidio” tra i crimini da attribuire agli imputati, anche se emergerà come termine descrittivo in alcune occasioni nello svolgersi del Processo. Per la prima vera codifica del temine bisognerà attendere la Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio del 1948, dove – però – la definizione sarà in qualche modo “ridotta” rispetto a quella pensata da Lemkin, in quanto verrà esclusa la persecuzione di gruppi politici e il “genocidio culturale” a cui, invece, negli ultimi anni si sta dando più attenzione.

A proposito del genocidio culturale, in che termini si sta ragionando per implementarlo?

L’idea è quella di estendere la definizione di genocidio anche a quei casi in cui si tenta di annientare l’identità di un gruppo umano, distruggendone la cultura o impedendone la diffusione, inibendo la possibilità di parlare la propria lingua e attraverso altre modalità coercitive, anche quando esse non si esprimono in maniera violenta in senso strettamente fisico. Naturalmente questo è un processo difficile, perché è necessario essere molto chiari e nient’affatto generici nella formulazione affinché tali crimini possano essere ben individuabili ed essere denunciati. Esistono già delle misure per denunciare crimini contro la distruzione del patrimonio artistico-culturale dei luoghi di culto, dei monumenti e dei cimiteri che però non rientrano ancora nella categoria “genocidio culturale”.

In tal senso, un passo in avanti potrebbe essere rappresentato dall’istituzione della Commissione crimini internazionali, nominata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia – e presieduta dai professori Francesco Palazzo e Fausto Pocar – che dovrebbe permettere all’Italia di specificare la sua adesione alla Corte penale internazionale nei singoli crimini internazionali e dare una visione sicuramente nuova, originale, anche dei crimini di guerra, contro l’umanità e di genocidio.

Ci può fare una distinizone tra genocidio e crimine contro l’umanità? Quali sono le differenze da identificare?

La differenza fondamentale tra genocidio e altri crimini è ben esplicitata nella Convenzione. L’elemento più importante, ma non sempre facilmente individuabile, è la chiara intenzione di distruggere un gruppo nazionale, etnico, religioso. Ad esempio non è stato subito facile individuare tale elemento quando sono stati istituiti i tribunali ad hoc per l’ex-Jugoslavia e per il Ruanda. L’intenzione di distruggere si riferisce ai gruppi umani in quanto tali, dunque non ci sono motivazioni “altre”: guerra, aggressione, volontà di conquista di un territorio, e conseguente “necessità” di pulizia etnica. Inoltre a determinare il crimine di genocidio è necessario qualcosa in più: l’odio e la volontà di disumanizzazione che abbiamo visto essere gli elmenti principali di tutti quei crimini che sono stati riconosciuti dai tribunali internazionali come dei genocidi veri e propri.

Perché alcuni crimini contro intere popolazioni (es.: armeni, rohingya, uiguri) fanno fatica a essere riconosciuti come genocidi?

Nel caso degli armeni la difficoltà principale è che il genocidio è avvenuto prima dell’adozione della Convenzione, e quindi addirittura prima dell’invenzione del termine. Ma è di fatto un genocidio riconosciuto dalla Comunità internazionale, ad eccezione di Turchia e Azerbaijan. Per quanto riguarda i rohingya, è attualmente in corso un procedimento nei confronti dei vertici del Myanmar per diversi crimini, tra cui quello di genocidio. Rispetto agli uiguri, dalle notizie che ci sono pervenute, ritengo che quello che sta accadendo rientri nella logica genocidaria, dal momento che – tra le altre cose – si sta impedendo l’uso di una lingua e costringendo l’assimilazione con l’etnia han [quella maggioritaria in Cina]. Tuttavia, in questo caso non è ancora in corso un procedimento, perché il percorso è più delicato, come spesso accade quando si ha a che fare con le massime potenze mondiali.

In questo discorso vorrei anche sottolineare il fatto che – nel “senso comune” ma anche nel modo in cui la stampa e i media parlano di queste questioni – anche se il genocidio è il crimine più grave (per questa sua caratteristica di “odio immotivato”), non vuol dire che altri (crimini di guerra e crimini contro l’umanità in primis) siano meno gravi. Proprio a tal proposito si pronunciò il giurista Antonio Cassese, quando era alla presidenza della Commissione Internazionale d’inchiesta dell’ONU sui crimini del conflitto del Darfur, sostenendo che anche se non si era di fronte a un genocidio nel senso stretto della parola (a tali conclusioni erano arrivate le Nazioni Unite, differentemente dal Governo degli Stati Uniti che invece usò il termine “genocidio”), la Comunità internazionale aveva comunque il dovere di intervenire per evitare altri, gravissimi, crimini.

Ph. Srebrenica memorial center for war crimes victims commited in Bosnian © kopfueberdesign via Unsplash

Dunque, secondo lei, il termine genocidio viene usato con troppa disinvoltura?

Sì, viene utilizzato con disinvoltura, e posso anche comprendere il perché: è un termine forte che è entrato per fortuna nella consapevolezza collettiva, quindi usarlo significa mettere in evidenza il carattere illegittimo, immorale e terribile di un evento di sterminio. Ciò determina anche un appiattimento del termine, che finisce così per indicare crimini diversi dal punto di vista del Diritto internazionale, ma che vengono percepiti come se fossero sullo stesso piano.

Perché la Comunità internazionale non interviene mai nel momento in cui si consuma un genocidio? Sembrerebbe agire sempre in ritardo…

Questo purtroppo a volte corrisponde al vero. Ed è bene sottolineare a tal proposito che la Convenzione del ‘48 mette la prevenzione prima della punizione, quindi l’intento era proprio la necessità di prevenire dei genocidi. Purtroppo abbiamo già visto come questo non sia accaduto in due occasioni nella metà degli anni ‘90: nell’ex-Jugoslavia, dove addirittura prima che avvenisse il Massacro di Srebrenica [6/25 luglio 1995] era già in funzione il tribunale speciale ad hoc, istituito nel 1993. Ma in quel caso sappiamo che in qualche modo la responsabilità è stata delle truppe Onu anche perché avevano ricevuto degli ordini che gli impedivano di muoversi come avrebbero potuto e dovuto.  Ancor più grave quello che è accaduto in Ruanda, dove il comandante delle truppe Onu lì presente, il generale canadese Roméo Dallaire, chiese – via fax – un maggior numero di soldati (5000) per poter fermare un genocidio che aveva capito essere in procinto di innescarsi. In quell’occasione ci fu un vergognoso balletto di distinguo che portò con notevoli difficoltà a definire quanto stava accadendo in Ruanda come “genocidio”. Non si voleva utilizzare quel termine perché in quel modo non si era obbligati a intervenire. Sappiamo bene che gli Stati Uniti non volevano intervenire perché ancora scottati da quello che era accaduto nella cosiddetta Battaglia di Mogadiscio, in cui persero la vita 19 marine per mano delle forze somale. Quindi in Ruanda si è assistito a un genocidio praticamente in diretta, con Paesi – come la Francia – che continuavano a fornire armi al governo genocidario. Dunque, purtroppo, non solo a volte non si è nella possibilità di intervenire, ma non si vuole farlo. Nel caso del Myanmar, il genocidio dei rohingya è legato allo scoppio di una guerra civile, a una conseguente repressione e alla ribellione di una parte della popolazione a tale repressione. Questi sono i casi in cui si fa difficoltà a intervenire perché – almeno all’inizio – tali crimini possono essere comunque considerati come degli “affari interni” a un singolo Paese (come anche nel caso degli uiguri in Cina), a meno che il Consiglio di sicurezza dell’Onu non deliberi diversamente. Il problema è che l’operato del Consiglio di sicurezza è spesso vincolato dal diritto di veto, il che in passato ha limitato di molto le possibilità di intervento per la prevenzione dei genocidi.

Come erano trattati gli atti di violenza contro un gruppo o una popolazione intera prima della nascita del crimine di genocidio?

Il problema è proprio che era una materia che non poteva essere trattata in nessun modo. A tal proposito è interessante la testimonianza di Raphael Lemkin all’epoca in cui era studente di Legge all’Università di Kiev. Lemkin ricorda quando Talat Pascià – uno dei tre componenti del “Triumvirato” che guidò l’Impero ottomano fra il 1913 e la fine della Prima guerra mondiale e uno dei principali artefici del genocidio armeno – nel 1921 fu ucciso a Berlino per mano di Soghomon Tehlirian, un giovane armeno. Quest’ultimo fu immediatamente fermato e processato. La cosa interessante è l’esito del processo, che si chiuse appena una settimana dopo: l’avvocato difensore di Soghomon Tehlirian fu molto bravo a sostenere il suo assistito, affermando che il gesto fu causato da una rabbia improvvisa che egli aveva provato nel trovarsi di fronte – quasi “per caso” – il mandante dello sterminio della propria famiglia. 

Ebbene, nel ricordo di Lemkin studente si rievoca questo avvenimento e la relativa domanda posta al suo professore, ovvero se – a prescindere dall’azione di Tehlirian – si sarebbe potuto mettere sotto processo Talat Pascià per i suoi crimini. La risposta ricevuta da Lemkin fu negativa, proprio perché all’epoca non esisteva una categoria legislativa che lo permettesse: Talat Pascià, infatti, non aveva ucciso nessuno “con le sue mani” e dunque non poteva essere accusato di “omicidio”. 

Negli anni Trenta ci fu una riflessione che portò a un’estensione dei crimini contro la legge internazionale che contemplavano le categorie di “terrorismo” e di “barbarie” che però erano ancora vaghe. Come abbiamo visto, solo dopo la Seconda guerra mondiale si arrivò a definire la categoria di “genocidio” e “crimine contro l’umanità”, il che rappresentò un grande salto in avanti per il Diritto internazionale e uno strumento fondamentale per la Corte penale internazionale

Ph. The Armenian Genocide memorial complex is Armenia’s official memorial dedicated to the victims of the Armenian Genocide, built in 1967 on the hill of Tsitsernakaberd in Yerevan © Amir Kh via Unsplash

Parliamo del genocidio cambogiano. Perché non è molto conosciuto? 

Il genocidio cambogiano ha avuto enormi difficoltà a essere affrontato da un punto di vista giuridico, tant’è vero che il Tribunale speciale della Cambogia – che è un tribunale particolare perché misto, ovvero formato da giudici sia cambogiani sia di altre nazionalità – è stato istituito solo nel 2006, decenni dopo il consumarsi del genocidio, e una delle conseguenze di tale ritardo è che la maggior parte dei responsabili era già morta quando il tribunale è stato costituito o è morta mentre era in corso il processo. Lo stesso Khieu Samphan, capo dello Stato dal 1976 al 1979 e dal 1985 presidente dei khmer rossi, a 90 anni è in attesa dell’esito del ricorso in appello della sentenza all’ergastolo comminata nei suoi confronti nel 2018 per genocidio.

Perché si arrivò così tardi? Innanzitutto perché durante la Guerra fredda c’era una contesa formidabile tra le varie superpotenze per la Cambogia. Ricordiamo che il genocidio inizia nel 1975, non appena i khmer rossi prendono il potere, e ha fine nel 1979 con l’arrivo delle truppe vietnamite che appoggiano i cambogiani che fuggivano o si ribellavano in qualche modo ai khmer rossi e decretandone così la caduta. Proprio in quel momento si manifesta una contrapposizione tra le grandi potenze: l’Unione sovietica appoggia il Vietnam e le vittime del genocidio cambogiano, mentre la Cina e gli Stati Uniti sono concordi nel minimizzare quanto era accaduto in opposizione all’Urss. Questo atteggiamento determinò che i governi cambogiani in esilio (compresi i khmer rossi) abbiano mantenuto il seggio alle Nazioni Unite fino al 1993, anche se non erano più al governo dal 1979.

Ricordiamo inoltre come anche Noam Chomsky – uno dei più importanti intellettuali americani di area “critica” – ha sostenuto per anni che in Cambogia non si fosse consumato alcun genocidio, ritrattando questa sua convinzione solo anni dopo. Il riconoscimento del genocidio fu un processo lungo e difficile, sia perché nei governi successivi al 1979 c’erano persone che avevano fatto parte dei khmer rossi (e dunque non avevano interesse a istituire un tribunale e affrontare ciò che era accaduto), sia perché gran parte dell’opinione pubblica non era incline a ripensare a quel passato tragico, anche se già dagli anni Novanta ci furono i primi tentativi di ricostruzione della memoria del genocidio (con la prigione di Tuol Sleng diventata un museo del genocidio). Solo a partire dagli anni Dieci di questo secolo è stato possibile iniziare il procedimento contro i responsabili del genocidio, quando ormai la società cambogiana aveva elaborato ciò che era accaduto e anche la convivenza tra ex-vittime e ex-torturatori e le generazioni successive a chi aveva vissuto direttamente il genocidio.

Tornando ai giorni nostri: quello che sta accadendo in Ucraina è un genocidio?

Una delle due giustificazioni (oltre a “denazificare” l’Ucraina) che Putin ha addotto per l’invasione è stata di ripondere a un “vero genocidio” in atto dal 2014 nel Donbass contro i cittadini russi o russofoni da parte delle autorità ucraine. L’Ucraina, da parte sua, ha chiesto immediatamente all’Alta Corte di Giustizia delle Nazioni Unite di verificare se questa accusa fosse vera o no. L’Alta Corte ha stabilito che allo stato degli atti non sussistono elementi per configurare un genocidio perpetrato dall’Ucraina in Donbass e che il ricorso all’utilizzo della forza da parte della Russia era illegittimo.

Credo che uno dei motivi per cui Zelenskyy ha usato e usa ancora adesso ripetutamente il termine “genocidio” è perché il primo a usarlo è stato Putin anche se non era giustificato a farlo. Zelenskyy usa il termine sulla base anche dei massacri che abbiamo visto essere stati commessi, anche per far leva sull’opinione pubblica dato che è comunicativamente più forte che non parlare di “crimini contro l’umanità”. Da quello che stiamo vedendo, sebbene in Ucraina si stiano commettendo dei gravissimi crimini, essi non rientrano nella categoria di “genocidio” ma piuttosto nei “crimini di guerra” e nei “crimini contro l’umanità”. Innanzitutto perché la conquista militare continua a essere la logica prevalente e non la volontà di distruggere il gruppo nazionale ucraino in quanto tale. Ma anche se non siamo di fronte a un “genocidio” propriamente detto, non si può e non si deve esimersi dal condannare i crimini che si stanno compiendo, da ambo le parti, che non possono essere giustificati come un “normale effetto collaterale della guerra”. Ma anche su questo punto è opportuno fare delle differenze: mentre dal lato ucraino ci sono state dichiarazioni in cui si ammetteva la disponibilità di verificare se le proprie truppe avessero compiuto dei crimini, da parte russa si è rilevato un atteggiamento di totale negazione di tali crimini che comunque sono stati ben documentati dalla stampa internazionale e sui quali la Corte penale internazionale sta indagando e che potrebbero addirittura portare a incriminare Putin per crimini contro l’umanità

Quindi non sono manichini quelli che abbiamo visto…

Bisognerebbe dire che, se fosse così, l’Ucraina sarebbe una Hollywood alla decima potenza per questa capacità di messa in scena. Purtroppo è la terribile verità, una verità che abbiamo già visto in Cecenia, Georgia, Siria da parte dell’esercito russo. Purtroppo ciò su cui dovremmo interrogarci è perché abbiamo aspettato tanto e che avvenisse alle porte dell’Europa per rendercene conto.

Ph. Special Emblem of International Day of Commemoration and Dignity of the Victims of the Crime of Genocide and of the Prevention of this Crime © United Nations via Wikimedia Commons

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Marcello Flores D'Arcais

Storico, esperto di genocidi. Già docente di Storia contemporanea e Storia comparata all'Università di Siena

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