Tra ferro e fuoco. Crimini di guerra e genocidi - Confronti
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Tra ferro e fuoco. Crimini di guerra e genocidi

by Andrea Mulas

di Andrea Mulas. Ricercatore Fondazione Lelio e Lisli Basso

Alla base dei crimini di guerra e dei genocidi c’è un lavoro della costruzione dell’identikit di pericoloso nemico da annientare. Anche grazie a questa strategia, oggi come ieri, alcuni eventi o catastrofi sono stati spesso accolti con indifferenza dai loro contemporanei.

È possibile sul piano storico e sul piano morale comparare i diversi tipi di violenza? Confrontare o distinguere i crimini di guerra con i genocidi, al di là delle terminologie giuridiche? A cosa servirebbe l’esercizio analitico per separare le violenze di massa, dai massacri, dai genocidi, dai crimini di guerra? E poi ancora, classificarli a seconda se commessi in tempo di pace o di guerra? Ma quindi la violenza di guerra diventerebbe la giustificazione della violenza genocidiaria? Ha scritto al riguardo lo storico Marcello Flores, che «è paradossale e provocatorio, naturalmente, mettere a confronto la violenza di guerra, soprattutto se commessa da chi è costretto a entrare in guerra per contrastare la violenza dell’invasione, della sottomissione e della distruzione umana, con quella esplicata nel suo livello più efferato e brutale, quello del genocidio».

Ma, inoltre, questo esercizio (ex post) appare così artificioso anche alla luce del fatto che nella storia alla denuncia degli orrori non sono corrisposte azioni prioritarie per tentare di fermarli.       

PER UNA DEFINIZIONE DI GENOCIDIO

Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. (Articolo II della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, 1948). 

Si parla di genocidio, ma alla base ci sono le diverse forme di violenza che l’essere umano ha scatenato nel XX secolo. Solo la Seconda guerra mondiale ha causato cinquanta milioni di vittime e probabilmente, sul piano quantitativo, rimane l’evento più violento e distruttivo del XX secolo e forse della storia umana. Le guerre del Novecento rappresentano il 95% dei morti nei conflitti degli ultimi tre secoli e la percentuale dei civili è cresciuta fino a raggiungere il 50% nella Seconda guerra mondiale. Ma, come ha suggerito Flores, i numeri vanno letti e a seconda della metodologia dell’analisi, cambiano, e non di poco, i punti di vista. Se prendiamo, ad esempio, le percentuali di popolazione uccisa durante i massacri di massa, cercando fra quelle più elevate, avremo un elenco notevolmente differente. Tra le popolazioni più colpite ne abbiamo due dell’Africa coloniale: Namibia e Congo, poi la Cambogia sottomessa al regime comunista, la Polonia vittima della Seconda guerra mondiale e la Guinea equatoriale. Ma in un simile elenco non compaiono i genocidi degli armeni e degli ebrei. 

Nella lettura della storia, un episodio su tutti è emblematico: la controversia suscitata dal progetto di esposizione di Enola Gay, il bombardiere di Hiroshima, allo Smithsonian Institute. John Dower, storico americano specialista del Giappone moderno, con numerosi studi ha mostrato come, secondo che la storia sia raccontata nell’ottica degli americani o dei giapponesi, essa venga rappresentata e valorizzata in modo interamente diverso. Da parte americana si esalta la narrazione eroica e trionfale in cui le bombe atomiche hanno annientato il nemico. Da parte giapponese, invece, ciò che predomina è una «narrazione di vittimizzazione», nella quale «le bombe atomiche sono diventate il simbolo di una specie particolare di sofferenza – abbastanza simile all’olocausto per gli ebrei». Eppure, fa notare Tzvetan Todorov nel suo Memoria del male, tentazione del bene (Garzanti, 2001), che nulla nella città di Hiroshima ricorda i massacri di Nanchino, perpetrati in Cina nel 1938 dall’esercito giapponese, e precisamente dalle guarnigioni di stanza a Hiroshima, massacri le cui vittime ammontano a circa 300.000.

«La memoria della violenza passata nutre la violenza presente: ecco il meccanismo della vendetta», scrive Todorov. La prima metà del Novecento è stata l’età del ferro e fuoco. Gli anni che vanno dal 1880 al 1920 costituiscono il laboratorio dell’orrore moderno. Per Georges Bensoussan senza stabilire un’analogia riduttiva, né sprofondare in un comparativismo livellatore, almeno si può comunque pensare che le violenze esercitate contro i colonizzati, contro i poveri e i marginali, sistematicamente rinchiusi, parteciparono anche di un clima intellettuale che ebbe la sua parte nelle basi culturali del Vecchio continente. Gli anni 1880-1914, in particolare, «ci appaiono come l’incrocio dell’angoscia contemporanea, quando una parte del mondo intellettuale esaltava la violenza e la guerra. Sotto un certo aspetto fu la matrice di una brutalizzazione della società che la Grande guerra si apprestava a esacerbare». 

Se il termine genocidio si può ritenere esagerato, si può notare tuttavia che la colonizzazione tedesca ha costantemente sfiorato (se non praticato apertamente) una politica genocidiaria nell’Africa australe. Si tratta molto spesso di sterminare una razza, tanto che sotto certi aspetti l’Africa nera è stata il laboratorio di quella violenza estrema che si scatenerà in Europa qualche decennio dopo. Il genocidio del popolo herero nel Sud-Ovest africano (attuale Namibia), perpetrato a partire dal 1904, ne ha fornito un esempio probante. Trentamila herero sono morti nel deserto. Su 80mila herero, secondo i dati del censimento ufficiale del 1911, circa 70mila sarebbero scomparsi nel corso della campagna di sterminio. I sopravvissuti, poco più di 10mila tra donne e bambini e circa 4mila uomini vengono invece internati nei tre Konzentrationlager e più del 50% degli internati (7.862 persone) muore nel corso del primo anno. Nel 1911 vengono censiti 15.130 herero ancora presenti nel Sud-Ovest africano, ovvero la popolazione è stata ridotta dell’81%.  

Il generale tedesco Lothar von Trotha ai suoi soldati di stanza nel continente africano: «Noi dobbiamo sterminarli per farla finita con tutte le possibili insurrezioni del futuro». E ancora: «Il popolo herero deve lasciare il paese. Se il popolo rifiuta lo costringerò con le cannonate. All’interno dei confini tedeschi, ogni herero, con o senza armi, con o senza mandrie verrà fucilato. Non risparmierò neppure donne e bambini. Questo è il mio messaggio alla nazione herero».

Quando nel 1904, dopo numerose proteste depositate contro la violenza commessa dai belgi nel quadro della corsa sfrenata al caucciù, la commissione internazionale d’inchiesta sul Congo consegna il suo rapporto (motivo per il quale Leopoldo II è costretto a lasciare la proprietà del territorio), conferma la realtà dello sterminio operato dalle forze tedesche nel Sud-Ovest, ma giustifica la repressione come mezzo necessario per civilizzare le razze inferiori: «In una parola, è solo attraverso questo mezzo che il Congo può entrare a far parte delle civiltà moderne, e che la popolazione può uscire dal suo stato naturale selvaggio». In generale, tutti i modelli di conquista occidentali, da quello tedesco a britannico, da francese a italiano, giustificano le loro azioni violente con la stessa discriminazione razziale e culturale nei confronti dei popoli non occidentali, ora con la logica di portare il progresso, ora con quella del dominio territoriale o economico. 

Come dimenticare e non condannare i fatti di Debre Libanòs, in Etiopia, teatro dell’eccidio ad opera del generale Pietro Maletti per ordine di Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia, dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ha luogo il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: uccisi circa duemila tra monaci e pellegrini. Un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare.

«A partire dal gennaio 1936, i soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i laghi, i pascoli, furono di continuo irrorati con questa pioggia mortale. Il comando italiano ha fatto passare e ripassare gli aerei per uccidere sistematicamente gli esseri viventi, per avvelenare con sicurezza le acque e i pascoli. Questo è stato il suo principale metodo di guerra». Hailé Selassié, imperatore dell’Etiopia, alla Società delle Nazioni.

Lo storico Enzo Traverso ha fatto notare che un paradosso attraversa il Novecento: alcuni eventi o catastrofi che oggi ci appaiono come carichi di violenza furono spesso accolti con indifferenza, ignorati, trascurati o banalizzati dai loro contemporanei. Il caso più emblematico è Hiroshima, la cui gravità è stata rimossa per decenni. “Le Monde” aveva salutato il fungo atomico come una «rivoluzione scientifica», tanto che negli Stati Uniti la bomba atomica sarà celebrata come fonte di orgoglio nazionale e per aver posto fine alla Seconda guerra mondiale. L’atmosfera del dopoguerra – che ci invita a riflettere – è raccontata da Vittorio Foa nel Cavallo e la Torre: «L’opinione media pensò solo che la bomba serviva a chiudere finalmente la guerra o, al massimo, pensò a un deterrente americano verso l’Urss, questa era anche la mia opinione».  

Nel 1944 Winston Churchill, riferendosi agli orrori del nazismo, parlava di «un crimine senza nome», e Raphael Lemkin, un ebreo americano di origine polacca, professore di diritto internazionale all’Università di Yale, gli rispose lo stesso anno, coniando la parola «genocidio». Era il titolo del nono capitolo del suo lavoro Axis Rule in Occupied Europe, utilizzato per identificare le pratiche di guerra della Germania nazista, elencava tutte le misure pianificate dai nazisti per annientare l’identità nazionale, religiosa ed etnica di alcuni popoli, in primo luogo ebrei e polacchi:

«Per “genocidio” intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico […] In senso generale, genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione, se non quando esso è realizzato mediante lo sterminio di tutti i membri di una nazione. Esso intende piuttosto designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi». 

Non tutti i crimini contro l’umanità, i genocidi e i massacri del XX secolo sono moderni al medesimo livello: il genocidio degli armeni nel 1915 (definito «il primo genocidio del secolo» dal rapporto finale della Commissione per i diritti umani dell’Onu nel 1973), il genocidio polpottiano in Cambogia, quello dei tutsi di Ruanda nel 1994, le pulizie etniche degli anni Novanta ecc. associano, in modo ogni volta specifico, tratti moderni e tratti arcaici. I quattro massacri che raffigurano nella maniera più compiuta la modernità della barbarie sono il genocidio nazista contro gli ebrei e gli tzigani, la bomba atomica a Hiroshima, il gulag staliniano, la guerra statunitense in Vietnam. Qui la quantità di bombe e di esplosivi riversati sul territorio vietnamita è risultata superiore a quella utilizzata nell’insieme dei belligeranti nel corso della seconda guerra mondiale!  

Ficcante e lucida, come sempre, la condanna di Sartre nel 1967 dei crimini del governo statunitense  che parla di “ricatto genocidiale” che si estende a tutto il genere umano:

«colpevole, mentendo, ingannando se stesso e gli altri, di impegnarsi sempre più intensamente, malgrado gli insegnamenti di questa esperienza unica e insopportabile, in una via che conduce verso un punto da cui non c’è ritorno, È colpevole, secondo le sue stesse confessioni, di condurre scientemente questa guerra esemplare per fare del genocidio una sfida e una minaccia a tutti i popoli». 

Diverso è il discorso per quanto riguarda le guerre coloniali del Novecento. Si pensi all’Indocina, all’Algeria, all’Africa coloniale portoghese e così via. Ma se si sfoglia a ritroso qualche capitolo dei manuali di storia si incontra il genocidio avvenuto a causa delle colonizzazioni del Nuovo Mondo, anche definito «olocausto americano», oppure le devastanti conseguenze secolari delle diverse ma similari forme di schiavitù e apartheid, tanto che ancora nella seconda metà del secolo scorso i popoli africani sono stati costretti ad impugnare le armi per ottenere la loro indipendenza, sebbene a caro prezzo in termini di perdite di vite umane, sconvolgimenti e danni.   

Come la Grande guerra, il modello coloniale ha abbassato la soglia della violenza consentita, ha aperto la strada a comportamenti e abitudini. Il colonialismo ha schiavizzato i colonizzati allo stesso modo in cui ha reso brutali i colonizzatori. Lo spiega Aimé Cèsaire nel 1950 nel suo Discorso sul colonialismo: «Bisognerebbe prima di tutto studiare come la colonizzazione lavora a sottrarre civiltà al colonizzatore, abbrutendolo nel vero senso della parola, e degradandolo, risvegliando in lui gli istinti nascosti, la bramosia, la violenza, l’odio razziale, il relativismo morale. […] Al termine di tutte le norme violate, di tutte le menzogne propagate, di tutte quelle spedizioni punitive tollerate […], si ritrova il veleno instillato nelle vene dell’Europa e il progredire lento, ma certo, del carattere selvaggio del continente».

Sembra fargli eco nel 1955 lo storico e politologo francese Raymond Aron, che insieme a Jean-Paul Sartre aveva fondato “Temps modernes”: «Il fenomeno decisivo è rappresentato dalle forme di odio astratto, l’odio per qualcosa che non si conosce e sul quale vengono proiettate tutte le riserve di odio che gli uomini sembrano possedere nel fondo di loro stessi».  

Zygmunt Bauman osserva un fenomeno importantissimo, ovvero che il «genocidio moderno è un genocidio mirante a uno scopo. Sbarazzarsi dell’avversario non è di per sé uno scopo. È il mezzo per raggiungere uno scopo: una necessità che scaturisce dall’obiettivo ultimo, un passo che bisogna compiere se si vuole raggiungere la meta del percorso. Lo scopo è dato dalla visione grandiosa di una società migliore e radicalmente diversa. Il genocidio moderno è un elemento di ingegneria sociale mirante a realizzare un ordine sociale conforme al progetto della società perfetta». Partendo da questo ragionamento, Bauman definisce il genocidio moderno il «lavoro di un giardiniere». Infatti, l’ordine artificiale del giardino determina cosa è inutile o dannoso per l’armonia e la bellezza dell’insieme, per esempio le erbacce. Le vittime di Hitler e Stalin sono state eliminate proprio per creare questo giardino perfetto, ed è per questo che, secondo il sociologo inglese di origine polacca, questi massacri rappresentarono «la concretizzazione più coerente e più vera» del processo “civilizzatore”.  

Si spiega il motivo per il quale a metà degli anni Novanta nel continente europeo e africano si torna ad usare il termine genocidio. Sebbene rappresenti il caso peggiore sullo scenario di gravi violazioni dei diritti umani, nella storia più recente di fronte alle violenze sistematiche l’Occidente ha balbettato più volte sulla grande querelle nominalistica dell’esistenza o meno di un genocidio, come nel caso del Darfur o del Ruanda. Eppure non lascia dubbi interpretativi la dura requisitoria dell’allora (impotente) segretario generale delle Nazioni Unite Boutros Ghali: «È un genocidio, quel che succede in Ruanda è uno scandalo e la comunità internazionale è colpevole, doveva intervenire prima». Nell’aprile 1994, quando iniziano i massacri di tutsi da parte del governo e delle milizie hutu, il Consiglio di sicurezza Onu discute se usare o no il termine genocidio solo sotto la spinta di gruppi umanitari come Human Rights Watch e Oxfam. Alla fine viene escluso per le pressioni dei governi statunitense e britannico, e solo quando le stime iniziano a parlare di almeno cinquecentomila persone uccise, il 10 giugno la portavoce del dipartimento di Stato ammette che «abbiamo ogni ragione di credere che atti di genocidio sono avvenuti in Ruanda». 

Ph. Support Ukraine in Vienna © Tetiana Shyshkina via Unsplash

L’INCUBO DEL GENOCIDIO TORNA IN EUROPA

Un’altra pagina drammatica della storia dell’umanità sono le violenze che accompagnano la guerra civile balcanica degli anni Novanta: bombardamenti quotidiani, esecuzioni sommarie di massa, fosse comuni, e nuovamente la comparsa nel cuore dell’Europa dei campi di concentramento. Il teatro del culmine della barbarie è la città di Srebrenica, dove l’11 luglio 1995 vengono uccisi circa ottomila uomini e ragazzi musulmani in un atto di genocidio opera delle milizie serbe di Ratko Mladić, e l’incubo del genocidio ritorna in Europa.   

Oggi non si tratta di negare un crimine contro l’umanità, come quello contro gli abitanti russofoni della regione del Donbass denunciato da Putin, anche perché negli anni passati gli studiosi sono giunti alla conclusione che «la negazione è divenuta parte integrante del genocidio; tralasciare questo aspetto significa fallire nella comprensione di una componente essenziale delle dinamiche di sterminio». Con quali basi storiche e storiografiche porre sullo stesso piano il genocidio armeno o quello degli ebrei con lo scontro che avviene nei territori separatisti delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk. Secondo un documento delle Nazioni Unite, pubblicato il 27 gennaio 2022, dal 2014 a fine 2021 il numero delle vittime si aggira tra i 14.200 e i 14.400: almeno 3.404 civili, circa 4.400 membri delle forze ucraine e circa 6.500 membri dei gruppi armati.

Genocidio non è la violenza di massa quando raggiunge un numero elevato di vittime, anche se in genere questo è sempre tragicamente successo. Quello che è accaduto per esempio in Congo agli inizi del Duemila è stata una violenza continua, diffusa, incontrollata, ma non un genocidio, malgrado il numero delle vittime abbia superato i due milioni. Mancavano due caratteristiche che hanno accompagnato sempre i crimini genocidiari (e fanno parte, tra l’altro, della loro definizione): l’intenzionalità e la sistematicità.

Nel caso della repressione nelle regioni separatiste ucraine non si tratta di negazione genocidiaria, ma di strumentalizzazione revisionista putiniana, figlia della perdita dello status di superpotenza che rimane una ferita, una fonte di frustrazione continua per una parte notevole della popolazione che è ancora attaccata all’immagine della grandezza imperiale sovietica. 

Hannah Arendt ha mostrato il rapporto specifico che intercorre tra logica totalitaria e iniziativa genocidiaria: i campi, scrive, «servono da laboratorio dove la convinzione fondamentale del totalitarismo – tutto è possibile – si traduce in realtà». Infatti la logica totalitaria rappresenta il denominatore comune dei regimi che hanno commesso i maggiori massacri del XX secolo. La percezione della minaccia è effettivamente fondata su una realtà, per quanto allucinata, che, amplificata a dismisura, arriva a creare una ossessione di assedio e a identificare il gruppo dominato, dominante o rivale, con l’incarnazione del Male. Questa mitizzazione della minaccia è tanto più efficace quanto più si basa su un fondo di verità, deforma intenzionalmente fatti reali, li intossica, e infine consente di soddisfare l’immaginario semplificatore del totalitarismo. 

Logica di potenza che giustifica il nazionalismo imperialista di stampo novecentesco che riporta la storia dei popoli ai tempi della Guerra fredda. Eppure nella Russia degli albori del nuovo millennio a livello scientifico gli studi sulla storia sovietica hanno vissuto un periodo di crescita esplosiva sia quantitativa che qualitativa soprattutto grazie all’apertura degli archivi. Tutto il campo di studi è stato in fermento e gli storici russi hanno dato un notevole contributo nell’analisi approfondita del XX secolo. 

Ormai è storiograficamente consolidata l’opinione che per i dirigenti del regime staliniano, il “terrore kulak” (tema che appare nel 1928-30) minaccia gravemente l’equilibrio economico, sociale e politico della giovane Unione Sovietica, ostacolando le requisizioni di cereali. In Education of a True Believer pubblicato negli anni Settanta, Lev Kopolev racconta la sua militanza di giovane comunista nella campagna ucraina nel 1933: 

«Non dovevo cedere a una pietà che mi avrebbe reso più debole. Noi assolvevamo una necessità storica. Compivamo il nostro dovere rivoluzionario. Ottenevamo dei cereali per la patria socialista […] e, per riuscirci, tutto era lecito: mentire, rubare, distruggere centinaia di migliaia, se non addirittura milioni di persone». 

Se Auschwitz è un sistema concentrazionario che ha prodotto milioni di vittime, l’obiettivo dei campi sovietici non è lo sterminio dei prigionieri, ma il loro sfruttamento brutale in quanto forza lavoro schiavizzata. 

Ph. © Ant Rozetsky via Unsplash

La svolta radicale nella politica delle nazionalità e l’ascesa di un’ideologia della patria sovietica imperniata sulla Russia, spiegano la pianificazione della carestia del 1932-33, considerata un mezzo per neutralizzare a lungo la più importante e consapevole tra le nazioni non russe dell’Urss. L’intenzione manifesta è solo quella di denazionalizzare l’Ucraina, in modo da facilitare la sovietizzazione; lo strumento al servizio di questa intenzione è una carestia artificiale che ha mietuto vittime senza fare distinzioni tra amici e nemici del regime, né tra bambini e adulti. In questa operazione non viene quindi colpita soltanto la popolazione civile, ma un gruppo nazionale in quanto tale, e c’è una sola parola per definire tale crimine: genocidio. Questa era del resto l’opinione dello stesso Lemkin, il quale, in un articolo apparso sul “New York Times” il 21 settembre 1953, definiva genocidiaria la politica condotta dai sovietici in Ucraina. Ciò non ha autorizzato però gli intellettuali ucraini degli anni Ottanta e Novanta a ricorrere al termine “olocausto” solo per accelerare il processo al riconoscimento internazionale di questo genocidio sul piano giuridico. La svolta in Ucraina avviene solo alla fine degli anni Ottanta, durante il governo di Gorbačëv, e grazie all’associazione Memorial, che nel settembre del 1990 organizza il primo convegno sull’Holodomor (letteralmente, “carestia-genocidio”).

Alla luce dei motivi addotti da Putin per invadere e sottomettere la Repubblica dell’Ucraina è evidente che anche le più rigorose analisi storiche si sgretolano di fronte al becero revisionismo e negazionismo, davanti al rigurgito imperialista. 

Dal discorso del presidente autocrate russo che annunciava – lo scorso 24 febbraio – l’avvio di una “operazione militare” in territorio ucraino, è emersa l’attualità e l’aderenza dell’analisi ai fatti di fine febbraio avanzata venti anni fa dallo storico russo Victor Zaslavsky, ovvero che la generazione a cui appartiene Putin «è cresciuta in balia della propaganda sovietica con la sua ideologizzazione e mitologizzazione della storia contemporanea, in particolare di quella sovietica. La coscienza storica di intere generazioni è totalmente manipolata e distorta, dominata dall’immagine di una lotta permanente, “noi contro loro”, di un grande complotto contro la Russia, di una permanente minaccia all’integrità territoriale del paese e all’esistenza stessa della nazione russa». È emblematico, proseguiva Zaslavsky, che uno tra i primi passi significativi sulla strada verso la transizione democratica all’inizio degli anni Novanta da parte del governo e del Ministero della pubblica istruzione sia stato quello di abolire gli esami di storia sia nelle scuole che nell’università, perché il sistema di educazione storica era totalmente falsificato e basato sull’immagine stalinista della storia sovietica e internazionale. Non c’è dubbio che siamo di fronte ad un caso di costruzione del nemico. Senza nemico non ci sarebbe violenza. Dalle pagine della Storia emerge che il carattere totalitario, dittatoriale, autarchico di uno Stato è un elemento che favorisce l’uso della violenza, così come è proprio dei movimenti nazionalistici che mobilitano le masse contro un nemico considerato pericoloso o minaccioso.  

I regimi genocidiari s’inscrivono in una prospettiva di costruzione, consolidamento o ridefinizione dello Stato con l’intento di affrontare meglio l’ordine internazionale esistente dominato da potenze occidentali definite ostili, oppure di contestarlo e sfidarlo. Per questo motivo tendono a mitizzare le minacce e a orchestrare le paure, e i loro progetti di ingegneria sociale assumono proporzioni tanto gigantesche. In questo senso sono tutti più o meno Stati “revisionisti” che puntano a rafforzare la loro statualità.

E oggi le immagini di Kiev, Mariupol, Kharkiv, Bucha richiamano alla mente il terribile bombardamento di  Dresda del febbraio 1945 che ha causato la morte di quarantamila persone. Il maresciallo Robert Saundby, responsabile del Bomber Command britannico, commentò in seguito con queste parole la tragedia di Dresda cui aveva contribuito: «Non è tanto questo o altri mezzi di fare la guerra che sono immorali o disumani. Quello che è immorale è la guerra in se stessa. Una volta che una guerra globale è scoppiata non può più essere umanizzata o civilizzata, e se una parte tentasse di farlo sarebbe con ogni probabilità sconfitta».

Ph. Piero Nigro © Unsplash

Andrea Mulas

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