di Ilaria Valenzi. Avvocata, ricercatrice in diritto delle religioni, Centro Studi Confronti.
Abbiamo atteso più di dodici anni che la verità giudiziaria venisse definitivamente accertata. La sentenza della Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 12 anni di reclusione per due dei carabinieri che, la notte del 15 ottobre del 2009, fermavano Stefano Cucchi con l’accusa di detenzione e cessione di stupefacenti. È l’inizio di un peregrinaggio da una caserma all’altra, nel corso del quale il corpo di Stefano è stato sottoposto a un pestaggio talmente violento da condurlo, qualche giorno dopo, a una morte dolorosissima avvenuta in ospedale, lontano dai suoi cari, a cui è stato impedito per giorni di incontrarlo. Omicidio preterintenzionale è il termine con cui definiamo la situazione in cui la morte si verifica “oltre l’intenzione” di chi picchia o fa del male. Come è stato efficacemente dichiarato dalla sorella Ilaria, finalmente è possibile affermare senza dubbi che Stefano Cucchi è morto di botte.
Chi, in realtà, sin da subito non ha nutrito alcun dubbio sulla fine cui è stato condannato Stefano e sulle responsabilità, molte e diversificate, dei carabinieri coinvolti, è stata la famiglia Cucchi che, con dolore e caparbietà, ha con- dotto una battaglia contro un muro di omertà e depistaggi, anch’essi accertati, che sembrava impari. Colpisce da sempre il pudore dei genitori di Stefano, che nei lunghi anni di processo han- no incontrato la malattia e non hanno potuto assistere all’ultimo atto. La loro vicenda li accomuna a tanti genitori che ricordiamo in vicende processuali che fanno parte della nostra memo- ria comune, come Ilaria Alpi o Marta Russo, scomparsi prima di poter vedere ristabilito il diritto. Intorno a loro, una pletora di esponenti politici che non hanno perso occasione di denigrare il figlio, con dichiarazioni diffamatorie sulla moralità dei suoi stili di vita, urlate sulla stampa e veicolate attraverso strategie difensive note, in un rovescia- mento di ruoli tra vittima e colpevole.
Ma è in Ilaria Cucchi che si incontra il punto più alto di una vicenda umana che ha cambiato il nostro modo di vedere le cose e ci ha obbligato a riporre al centro del nostro vivere insieme il rapporto, da sempre problematico, con la violenza di Stato. A lei si deve una vittoria, che è certamente della famiglia, ma che appartiene a tutti noi e ci riguarda da vicino. Ilaria Cucchi è stata spesso, e a ragione, assimilata a “un’Antigone contemporanea”, la cui vita è dedicata all’affermazione della giustizia contro un potere malato, che fa un uso distorto della legge degli uomini. Una donna, che fa della sua vicenda personale un gesto politico e che restituisce al corpo martoriato del fratello la dignità che gli è stata sottratta.
C’è un momento preciso in cui la storia di Ilaria e Stefano diventa anche la nostra. Accade quando Ilaria decide di mostrare le immagini del corpo di Stefano. Di lì in poi l’opinione pubblica ha cambiato modo di vedere le cose e una narrazione diversa ha potuto farsi strada in una parte significativa – ma parziale, occorre ribadirlo – della coscienza civile.
La forza mediatica ha accompagnato l’intera vicenda di Stefano Cucchi e della sua famiglia, ritratti nel cinema, a teatro, nei murales, con una valenza simbolica che è entrata nel nostro immaginario collettivo.
Non è facile tirare le somme di una vicenda che ci ha letteralmente attraversato, come individui e come Paese. Il tema dell’abuso da parte delle forze dell’ordine non nasce con Stefano Cucchi, che ne costituisce tuttavia un caso paradigmatico e ci aiuta a individuare almeno due punti fermi. Il primo riguarda il sistema intricato di azioni a copertura di quanto accaduto la notte del 15 ottobre 2009, che si è rotto solo grazie alla confessione di soggetti interni all’Arma, senza la quale probabilmente avremmo assistito a un finale diverso. Il clima omertoso e di minacce ci parla di un modo inaccettabile di intendere il potere all’interno di uno Stato di diritto. C’è un problema di uso della forza e di assunto diritto alla prevaricazione, che si declina diversamente nei contesti sociali (pensiamo ad esempio all’uso della forza contro la popolazione nera negli Stati Uniti) e che va culturalmente risolto.
Il secondo riguarda “l’affidarsi a”, la cura che lo Stato avrebbe dovuto garantire a Stefano Cucchi, una volta posto sotto la sua custodia. Le percosse subite ci parlano invece del disprezzo nei confronti di una persona, giudicata per la sua storia. Abbiamo necessità di recuperare la dignità, nostra e degli altri, non prescindendo dalle scelte di vita delle persone, ma ponendole al centro del nostro reciproco sostenerci. In ciò risiede il patto fondativo dello stare insieme.
Con la morte di Stefano Cucchi abbiamo imparato di nuovo a essere vigili contro i soprusi e compassionevoli con gli esseri umani.
Ilaria Valenzi
Avvocata, ricercatrice in diritto delle religioni, Centro Studi Confronti