Storie di migrazione: quelle persone a cui l'Europa non apre le porte - Confronti
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Storie di migrazione: quelle persone a cui l’Europa non apre le porte

by Velania A. Mesay

di Velania A. Mesay. Reporter e studiosa del Corno d'Africa.

Seduto su una panchina a Sappho square, Jesus contempla la vista del mare. Gli sono cresciuti la barba e i capelli. Dice che non ha più voglia di radersi. Con il sorriso di un saggio e un nome che sembra già portar con sé la sua condanna, Jesus ci fa promettere di andare a verificare come sta suo figlio. La loro è una storia di migrazione che parte dallo stesso Paese, il Congo, ma si realizza attraverso due viaggi diversi, due approdi diversi, e che termina con lo stesso risultato: lo stallo e l’attesa in due isole del Mediterraneo.

Jesus è arrivato da solo a Lesbo nel 2020. Padre di tre figli, sognava un’Europa nella quale avrebbe potuto guadagnare abbastanza per inviare del denaro alla sua famiglia e permettergli una vita migliore. In Congo faceva il meccanico. Adesso che son passati due anni e che la sua richiesta d’asilo è stata rigettata più volte, si chiede che ne sarà dei suoi giorni nell’isola del diavolo greca. Exauce, suo figlio, è partito un anno dopo. Con lo stesso sogno del padre e la spensieratezza di un ragazzo di vent’anni, ha deciso di seguire le orme di tanti suoi connazionali. Lui però, per penetrare nella fortezza Europa, sceglie un altro tragitto: da Kinshasa vola nella Repubblica turca di Cipro e da lì varca illegalmente il confine pattugliato dai caschi blu per entrare nella Repubblica greca di Cipro e quindi in Unione europea.

A Lesbo, in quel pomeriggio di aprile, con il tramonto che regalava i suoi colori migliori, Jesus ci fa fare la sua promessa: «Questo è il numero di mio figlio, contattatelo e poi fatemi sapere come sta. Ormai sono più di due anni che non lo vedo e chissà quando lo rivedrò. Intanto incontratelo voi per me». Lo salutiamo abbandonandolo alla sua tyche, consapevoli che la nostra ci permetterà di viaggiare per il solo (non) merito di possedere un passaporto migliore del suo. 

Exauce ci dà appuntamento ad Ayia Napa, una località marittima sulla costa Sud Est di Cipro. Ayia Napa è una meta turistica, attrezzata al meglio per il turista di cattivo gusto: le sue stradine pullulano di ristoranti che fanno a gara per i prezzi più alti; macchine costose sfrecciano nel centro cittadino con inglesi ebbri che si affacciano a urlare dai lori finestrini; ci sono night club a ogni angolo di strada pubblicizzati con foto di donne nude; quod guidati da adolescenti di buona famiglia che con prepotenza ti tagliano la strada mentre la attraversi; castelli gonfiabili, ruota panoramica sul mare e bar dove ti servono vestiti come i personaggi del cartone animato “Flintstones”, condiscono questo nefando panorama. La città non è nient’altro che un divertimentificio per i turisti abbienti che non si accontentano solo delle sue spiagge esclusive, così come vengono definite nei cartelli pubblicitari all’uscita dell’autostrada, ma che sono in cerca di ulteriori “svaghi”.

Un po’ stupiti dal luogo in cui ci ha chiesto di raggiungerlo, chiediamo a Exauce e ai tre amici ventenni che lo accompagnano, come mai vivono ad Ayia Napa. La loro risposta è semplice: qui l’affitto è meno caro rispetto ad altre località dell’isola come la capitale Nicosia. Ad accomunare il gruppo di amici è la loro provenienza (sono tutti congolesi) e la loro storia di migrazione. I quattro hanno compiuto lo stesso viaggio: dal Congo hanno volato fino a Cipro Nord, hanno attraversato la frontiera e poi sono finiti nel campo profughi di Pournara, nella Cipro greca, dove si sono conosciuti. Quando gli chiediamo delle condizioni all’interno del centro i loro animi si scaldano: «il campo era sovraffollato! Scoppiavano spesso delle risse violente tra vere e proprie gang che si formavano al loro interno. Noi eravamo abbandonati a noi stessi, non c’era nessuno a proteggerci. Il cibo era incommestibile e spesso ci mancava anche l’acqua potabile. Grazie a Dio non siamo più lì dentro» afferma uno di loro. Le condizioni che denunciano sono veritiere.

Il campo di Pournara è sorto nel 2019 per accogliere poco più di 700 persone, ora ne ospita più di 3000. Anche negli incontri che abbiamo fatto fuori dal campo, i rifugiati ancora rinchiusi al suo interno denunciano le stesse disumane condizioni che i ragazzi di Ayia Napa ci descrivono. Mancano i servizi igienici di base, l’acqua potabile e le liti scoppiano frequentemente. Il campo è un inferno dal quale i profughi aspettano solo di uscire. Ma cosa c’è ad aspettarli una volta che varcano la soglia d’uscita di Pournara? La risposta è nei ritratti dei quattro giovani congolesi. Una volta lasciato il campo, e compiuta dunque la prima registrazione che attesta la loro presenza nel territorio greco-cipriota, i ragazzi sono abbandonati a loro stessi. Non possono lavorare perché la loro domanda d’asilo è ancora in attesa di una risposta e non possono studiare per la stessa ragione. Devono solo sopravvivere. Per farlo ci sono i 260 euro mensili che il governo gli concede. Con 260 euro dovrebbero pagarsi un affitto, le bollette, i viveri, le ricariche telefoniche che gli permettono di tenersi in contatto con le famiglie e magari anche l’avvocato che possa seguire le loro pratiche. 

Entriamo nell’appartamento di due di loro, Hervè e Thimoty. Nella piccola casa le stanze sono ricavate da divisori in lamiera. Hervè e Timothy dormono sullo stesso letto e accanto a loro dorme un altro ragazzo. I loro unici averi sono riposti dentro delle valigie sulle quali hanno scritto i loro nomi. All’ingresso un gruppo di uomini è intento a cucinare, nella piccola terrazza un altro è al telefono e nella “stanza” accanto a quella dei due ragazzi, dormono altri due uomini. In totale sono 8 in un appartamento da 50mq. Quando chiediamo al gruppo di amici perché hanno deciso di lasciare il Congo la risposta è solo una: lì non vedevano alcuna possibilità di lavorare, di migliorare la loro vita.

Insomma sono quelli che chiameremmo “migranti economici”, quelli che non fuggono da nessun conflitto o persecuzione. Ma cos’erano d’altronde gli italiani che si imbarcavano per le Americhe nel ‘900? Visto che ciò da cui questi ragazzi dichiarano di scappare non rientra nella definizione di “rifugiato”, che secondo la Convenzione di Ginevra è la condizione di colui/colei che: temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopramolto probabilmente non vedranno mai la loro richiesta d’asilo approvata. Ma la loro conoscenza prima del viaggio di ciò che li aspetta è in molti casi scarsa o distorta. Molti di loro affermano di essere stati tratti in inganno da alcune agenzie di viaggio in Congo che promettono che Cipro sia una sorta di paradiso terrestre dove ad aspettarli ci sarebbero state tantissime opportunità lavorative e di studio. L’agenzia convince i suoi clienti a comprare il biglietto fino a Cipro Nord. Arrivati lì se la devono cavare da soli. Scopriranno che non c’è nessun paradiso, che devono pagare un trafficante per attraversare la buffer zone [Zona tampone] e poi attendere in un limbo fatto di ingannose speranze. Quella delle agenzie di viaggio è una storia che ci viene confermata anche da un coinquilino dei ragazzi sui quarant’anni: “l’agenzia di viaggio mi aveva promesso che da Cipro ci sarebbero stati treni, metro e aerei che mi avrebbero portato in Francia. Sono pentito di essere venuto qui a buttare la mia vita!” afferma l’uomo alzando i toni e con gli occhi pieni di collera.

Nell’appartamento c’è un gran via vai. Timothy, che sogna di poter studiare medicina e diventare un giorno un dottore, mi fa notare ogni volta che entra qualcuno in casa: “Hai visto? Un altro che viene qui a passare la giornata giocando a carte o stando al telefono.” E continua: “No job, no job, no job….” I giorni si susseguono uno dopo l’altro nella stessa monotonia: mangiare, dormire e stare al telefono. Ma i quattro ragazzi sperano di poter proseguire con i loro studi e poi di poter iniziare a lavorare per mandare dei soldi a casa. 

Nel frattempo il ministro dell’interno greco-cipriota, Nicous Nourris, ha affermato che il suo governo cercherà di rimpatriare qualsiasi migrante la cui domanda di asilo è stata respinta. A novembre a venirgli in ausilio è stato anche il ministro dell’interno francese che ha visitato il l’isola e ha accettato di avviare colloqui tra Cipro e i Paesi africani francofoni, tra cui la Repubblica Democratica del Congo e il Camerun, con l’obiettivo di convincerli ad accettare indietro tutti i cittadini le cui domande di asilo sono state respinte.

Prima di salutarci i ragazzi ci chiedono di lanciare un appello al Papa, l’unica autorità che ai loro occhi pare avere il potere di poter mutare la loro condizione d’attesa: «Supplichiamo il Papa di venire a soccorrerci perché siamo giovani e siamo cattolici. Vorremmo che ci venisse in aiuto perché l’unica cosa che desideriamo è un futuro radioso come tutti gli altri giovani di questo mondo. Non possiamo spendere la nostra giovinezza in queste condizioni. Per favore, che qualcuno ci aiuti».

Ph. © Phil Botha via Unsplash

Velania A. Mesay

Velania A. Mesay

Reporter e studiosa del Corno d'Africa

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