di Gaetano De Monte. Giornalista
«Il 1992 rappresenta uno spartiacque nella storia d’Italia, un anno che nel suo significato è molto simile a quello che per la mia generazione ha rappresentato il 1969, la perdita dell’innocenza, con l’inizio dello stragismo e della strategia della tensione». Con queste parole l’ex ministro della giustizia, oggi presidente del corso di laurea di giurisprudenza alla Sapienza di Roma, Oliviero Diliberto, ha aperto i lavori del convegno organizzato dall’associazione Libera nell’aula VII della stessa facoltà. Un momento di confronto e dibattito dal titolo NEXT → Palermo 1992 – Roma 2022.
L’occasione, neanche a dirlo, è stato l’anniversario dell’uccisione, avvenuta il 23 maggio 1992, del giudice Giovanni Falcone, della moglie, la magistrata Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Ed è proprio a partire dal lavoro fondamentale coordinato da Giovanni Falcone, considerato «il punto di svolta cruciale nella capacità dello Stato di intercettare le trame corruttive e criminali delle organizzazioni di stampo mafioso», che il coordinamento di Libera Roma ha organizzato il convegno «per rivolgere lo sguardo al nostro tempo e per approfondire l’evoluzione dei fenomeni mafiosi nella Capitale», si legge in una nota. Un dibattito che ha incrociato tre diverse prospettive di lotta alle mafie: giornalistico, giudiziario, politico.
Il metodo Falcone
«Le idee di Giovanni Falcone non solo camminano sulle nostre gambe, ma costituiscono l’architrave della moderna antimafia», ha detto intervenendo all’incontro la magistrata Ilaria Calò, Procuratore aggiunto presso la Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Roma. Calò ha spiegato le innovazioni e le intuizioni apportate dal giudice palermitano «nell’aver compreso l’importanza degli accertamenti patrimoniali sulle ricchezze dei presunti mafiosi, della zona grigia, della contiguità, dell’importanza del coordinamento e dello scambio delle informazioni tra le procure antimafia». E ancora, ha ricordato che «la nostra legislazione in questo senso è moderna, ma è costituita sul sangue versato da Pio La Torre, l’ex deputato del PCI autore della proposta di legge che ha introdotto in Italia il reato di associazione mafiosa, norma che ha permesso anche la confisca dei patrimoni illeciti, ma che fu approvata soltanto qualche mese dopo la sua uccisione, e una settimana dopo quella del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa». Fu approvata il 13 settembre del 1992 la legge Rognoni-La Torre, infatti, dieci anni prima dell’anno che sconvolse l’Italia, con gli attentati, le inchieste di Tangentopoli e con la fine del sistema dei partiti che si erano consolidati a partire dall’avvento della Repubblica, nel secondo dopoguerra.
Dire mafia nella Capitale
Un anno, il ’92, che per certi aspetti, forse, però, non ha cambiato l’Italia. Lo dimostra proprio la profezia di Giovanni Falcone su «il Lazio che non è un’isola felice», ricordata nel corso del suo intervento dalla dottoressa Calò. «Una regione in cui tuttora convivono e coesistono diverse organizzazioni criminali, con una dimensione orizzontale, non verticistica, cioè senza un capo dei capi ma con un vero e proprio quartiere generale», ha aggiunto la giudice che coordina le indagini contro le mafie nella Capitale. Infine, Calò ha ricordato le varie operazioni giudiziarie condotte dalla DDA negli ultimi anni. Da quelle contro i clan dei Casamonica a quella contro il clan di Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, ucciso il 7 agosto del 2019 su una panchina in pieno giorno, in uno dei parchi più frequentati di Roma; fino all’ultima operazione giudiziaria che ha portato qualche giorno fa il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma, Gaspare Sturzo, su richiesta del PM Giovanni Musarò, a firmare 61 richieste di custodia cautelare, ipotizzando l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta che aveva diversi agganci anche tra commercialisti, direttori di banca ed altri professionisti.
«Roma è la prima città italiana per operazioni finanziarie sospette», ha lanciato l’allarme il Presidente dell’Osservatorio Tecnico Scientifico per la Legalità e la Sicurezza della Regione Lazio, Giampiero Cioffredi. Aggiungendo che «il 16% delle aziende confiscate in Italie si trova nel Lazio»; ed evidenziando, inoltre, il rischio di una sottovalutazione del fenomeno. «Fino agli anni ’80 la classe politica aveva la capacità di interpretare i processi, di anticipare i fenomeni, ora li subisce», ha ribadito Cioffredi: «Per questo, per combattere le mafie, non servono più carabinieri, servono più azioni di welfare, maggiori strumenti di inclusione sociale».
Il ruolo dell’informazione
«Serve proiettare un cono di luce sulle mafie e questo deve farlo l’informazione», ha ricordato la stessa Ilaria Calò, elogiando il lavoro di Giovanni Tizian, cronista del quotidiano “Domani” ed anche lui intervenuto al convegno che si è tenuto stamattina all’università La Sapienza.
Tizian è autore di alcune tra le più importanti inchieste giornalistiche sulle mafie degli ultimi anni e, nel recente passato, per il suo impegno professionale, era finito fortemente nel mirino delle ‘ndrine calabresi radicate in Emilia Romagna, ricevendo pesanti minacce di morte, così gravi da finire sotto scorta. Nella sentenza che ha portato alla condanna di chi aveva minacciato di morte il cronista, nell’ambito del processo che ha condannato gli appartenenti ad un’associazione ‘ndranghetista capeggiata da Nicola Rocco Femia, i giudici evidenziarono che «il disegno di uccidere il giornalista Giovanni Tizian, colpevole di aver denunciato sulla stampa l’attività criminale dei Femia, è un aspetto addirittura eversivo, un attentato alla Costituzione la quale, all’articolo 21, stabilisce che la stampa non può essere soggetta a censure».
Al giornalista «volevano sparargli in bocca», ma Tizian ha continuato a raccontare e il solo silenzio che ha conosciuto in questi anni, è quello che da il titolo al suo ultimo saggio che è da qualche giorno in libreria con Laterza. “Il silenzio. Italia 1992-2022”. «L’assuefazione è tale da non produrre più alcun clamore, ordinaria amministrazione in un paese anestetizzato. Stremato dal malaffare. Il silenzio, a trent’anni dal 1992. Il sintomo che nulla è cambiato». Scrive il giornalista: «c’è solo una strada per infrangere il silenzio che protegge il sistema, resistere. Ognuno come può. La mia forma di resistenza è la scrittura».
Ph. Piazza Falcone Borsellino © Guido Rampon via Wikimedia Commons

Gaetano De Monte
Giornalista