di Enzo Ciconte. Storico, scrittore, docente di Storia delle mafie italiane all’Università di Pavia, già consulente presso la Commissione parlamentare Antimafia.
C’è qualcosa che stride in questa ricorrenza del trentesimo anniversario delle stragi di Capaci e di via D’Amelio nelle quali furono orrendamente assassinati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e tutte le loro scorte.
Trent’anni fa quelle stragi sconvolsero l’Italia e ne cambiarono i destini. Fu una cesura netta. Mutarono tante cose, a cominciare dalla lotta alla mafia che lo Stato, finalmente e con colpevole ritardo, imboccò subito dopo. Si aprì una nuova stagione di aggressione giudiziaria che fece crollare e scardinò la famosa cupola di cosa nostra, la commissione come veniva chiamata dai mafiosi. Molti mafiosi, anche importanti e che avevano avuto ruoli di rilievo nella cupola e nell’organizzazione delle stragi, decisero di abbandonare cosa nostra e di passare con lo Stato.
Queste collaborazioni furono determinanti nella sconfitta del gruppo dei Corleonesi raccolti attorno a Totò Riina, il capo dei capi come lo si definì. Riina fu catturato subito a inizio 1993 e Bernardo Provenzano fu preso nel 2006 dopo 43 anni di latitanza. Quella cattura segnò la fine del lungo ciclo dei Corleonesi. Tutti coloro i quali hanno fatto parte di questo raggruppamento mafioso o sono morti al 41 bis come Riina e Provenzano o sono condannati all’ergastolo.
Oggi Palermo e la Sicilia sono completamente diversi da trent’anni fa. Dire che lo Stato ha segnato un punto a favore non è un’esagerazione. C’è un clima nuovo, c’è una società civile più attenta e reattiva, non ci sono più i morti ammazzati come capitava un tempo.
Si respira un’altra aria, e sarebbe sbagliato negarlo. La mafia, però, non è sparita del tutto; lo si vede dalla ricerca di spazi, dalla volontà di mostrarsi presenti nei territori nel tentativo di imporre l’antica pratica del pizzo, a volte riuscendoci altre volte no. Sono uomini usciti dal carcere che tentano di rimettere in vita gli antichi fasti, o sono gli “scappati” (gli sconfitti dei Corleonesi che per salvarsi si rifugiarono negli Stati Uniti d’America) che cercano di riprendersi il territorio che un tempo dominavano. Ma non è più la mafia dei Corleonesi.
È una mafia che, al di là di queste manifestazioni di esistenza in vita, si muove in modo felpato, più riparata dai riflettori, attenta a non richiamare l’attenzione mediatica. E tesse rapporti, relazioni, fa affari, getta ponti per il futuro. È molto pericolosa perché non è immediatamente percepibile. Sta cercando di riorganizzarsi guardando al futuro e mostrandosi diversa dal passato.
Quello che stride è una parte della politica e della società civile. Quello che stride è il fatto che, in vista dell’elezione del sindaco di Palermo e del Consiglio regionale, le cronache giornalistiche registrano un’insolita e inquietante presenza nella scelta dei candidati di due personaggi come Totò Cuffaro, l’ex presidente della Regione Sicilia, e Marcello Dell’Utri, ex senatore, amico di Berlusconi. Entrambi sono stati condannati per reati di mafia e hanno scontato la loro pena.
Fa parte dei loro diritti costituzionali che possano interessarsi di politica, quello che è davvero singolare e sorprendente è che i candidati in questione li coccolano, li cercano, li blandiscono. In una parola non rifiutano i voti che i due possono portare, soprattutto Cuffaro che di suo dispone di una messe di voti personali. E ciò rappresenta un problema di primaria grandezza perché vuol dire che non c’è stato un ricambio di classe dirigente e che quei voti invece di essere riconvertiti per un nuovo progetto politico sono rimasti in frigorifero in attesa che fossero scongelati da Totò “vasavasa” e utilizzati a suo piacimento.
E stride ancora di più che nei partiti nazionali, in quelli di appartenenza dei
due e, soprattutto, in quelli di centro sinistra non sia stato sollevato adeguatamente il problema e non si sia aperta una battaglia politico-culturale. Io non oso immaginare quello che potrebbe succedere se a sindaco di Palermo fosse eletto uno con i voti di Cuffaro e la sponsorizzazione di Dell’Utri, e si presentasse con fascia tricolore alla commemorazione di via D’Amelio.
Stride che il presidente del Consiglio Draghi al recente forum sul Mezzogiorno abbia pronunciato un discorso anche interessante ma che aveva un vizio di fondo: non ha parlato di mafie alla vigilia dell’anniversario delle stragi e non ha sottolineato che le mafie hanno rappresentato e rappresentano un potente freno per lo sviluppo e un nemico mortale per il futuro di quelle terre.
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Enzo Ciconte
Storico, scrittore, docente di Storia delle mafie italiane all’Università di Pavia,
già consulente presso la Commissione parlamentare Antimafia.