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La barbarie trent’anni dopo

by Roberto Bertoni Bernardi

di Roberto Bertoni. Giornalista e scrittore

Trent’anni fa, poco dopo il “ciclone Tangentolpoli”, nell’arco di 57 giorni si verificano in Sicilia le stragi di Capaci e via D’amelio in cui persero la vita i giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Cinquantasette giorni: tanto separa Capaci da via D’Amelio. Due mesi nel corso dei quali si è decisa una parte significativa della Storia d’Italia, specie se si considerano le implicazioni che gli omicidi di Falcone e Borsellino hanno avuto nella complessa vicenda della lotta contro il demone mafioso. Primavera-estate del 1992, trent’anni fa. Pochi mesi prima si era abbattuto sul Parlamento e sul Paese il ciclone di Tangentopoli, con l’arresto a Milano di Mario Chiesa, socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, e l’inizio della stagione che avrebbe posto fine alla cosiddetta Prima Repubblica.

“IL FRESCO PROFUMO DELLA LIBERTÀ”

Molto si è discusso e altrettanto ci si è interrogati non tanto sugli esecutori materiali, ormai ampiamente noti, quanto sulle ragioni di quegli attentati. In attesa delle tante, troppe risposte che ancora mancano all’appello, partiamo dalla certezza che Falcone e Borsellino furono fatti saltare in aria in una Sicilia che già aveva pianto centinaia di vittime, al termine di un decennio in cui Palermo era diventata una città invivibile e in cui, da Pio La Torre in poi, non si contavano più gli agguati e le sparatorie, nella riproposizione continua di una scia di sangue che rese quasi impossibile ogni convivenza civile. Si distinse, in questo terribile scenario,la figura di Leoluca Orlando, il sindaco della Primavera di Palermo, al pari di figure eroiche come l’imprenditore Libero Grassi, assassinato il 29 agosto del 1991 per il suo pervicace e pubblico rifiuto di sottomettersi al pizzo e dei nascenti movimenti anti-mafia che, negli anni successivi alle stragi, sarebbero diventati dirompenti. Al che, vien da dire che forse aveva ragione Borsellino, quando sosteneva che le nuove generazioni avrebbero avuto più forza rispetto alla sua per reagire e apprezzare il “fresco profumo della libertà”, ripudiando “il puzzo del compromesso morale” e ciò che esso comporta.

Non a caso, c’è una terza personalità tragica, troppo spesso ignorata, che è invece opportuno ricordare. Parliamo di Rita Atria, la sorella di Nicola Atria, figlia di don Vito Atria, che il 26 luglio  del 1992 si suicidò, gettandosi dal settimo piano del palazzo romano in cui era stata sistemata dopo aver avuto accesso al programma di protezione per via del suo desiderio di collaborare con Borsellino, contribuendo all’attività dei magistrati anti-mafia. Decise di seguire la coraggiosa scelta di sua cognata Piera Aiello, che per fortuna è ancora tra noi ed è oggi parlamentare della Repubblica. I suoi familiari furono i primi a esultare quando appresero la notizia della sua morte, auspicando anche quella di Piera, ma ciò per fortuna non inficiò lo spirito battagliero di questa donna straordinaria. Ogni volta che ricorda Rita, Piera cita il momento in cui questa ragazza di soli diciassette anni prese atto che senza lo “zio Paolo”, come chiamava affettuosamente Borsellino, anche lei era morta, che la sua lotta non avrebbe avuto più alcun senso né ascolto né prospettiva. Non era così, ma noi non siamo nessuno per giudicare una scelta tanto dolorosa quanto disperata. Possiamo solo prendere atto del suo dolore, del suo strazio interiore e di cosa accadde, in quei due mesi, nel sottosuolo di un’Italia che si stava organizzando per entrare in una falsa modernità che l’avrebbe deturpata per sempre. 

“LA MAFIA DENTRO DI TE”

Perché diciamocelo con chiarezza: quasi nulla è migliorato negli ultimi tre decenni. La politica si è pressoché estinta, e con essa le istituzioni e la fiducia dei cittadini nelle stesse. È rimasta la passione civile dei giovani per la lotta in nome della legalità, questo sì ed è bellissimo, ma è altrettanto vero che molte istanze della parte migliore del Paese non hanno più ascolto. E anche la magistratura ha smarrito molta della credibilità e della stima che si era guadagnata in quegli anni, quando numerosi ragazzi e ragazze decisero di iscriversi a Giurisprudenza ispirati dal pool di Mani Pulite e dalle vicende tragiche di Falcone e Borsellino. Non è tutto finito, come sostenne Caponnetto, sfiancato dalla sofferenza, subito dopo la mattanza di via D’Amelio. Proprio lui, anzi, ebbe il merito di andare nelle scuole, contribuendo in maniera sostanziale alla nascita di una coscienza anti-mafia a livello nazionale e al riscatto della società dall’inferno nel quale era stata lasciata affondare.

Ciò che è finito, invece, è il nostro sogno collettivo, la nostra idea comunitaria, la speranza di poter costruire insieme spazi di solidarietà e condivisione che, non per caso, son venuti meno. Siamo tutti più soli, il che rende difficile per le nuove generazioni incidere come vorrebbero sul contesto complessivo di una società che cammina a passo di gambero. È importante, tuttavia, sottolineare che qualcosa è rimasto, che l’esempio di questi due giudici è diventato un moto dell’anima, un sentire collettivo, un desiderio di giustizia che va ben al di là dei processi e del contrasto alla criminalità, essendosi ormai trasformato nella volontà delle nuove generazioni di sconfiggere la mafia di ogni giorno, “la mafia dentro di te” di cui parlava Rita Atria.
La mafia della prepotenza, del sopruso, dell’omertà e della vigliaccheria, la mafia che costringe le ragazze e i ragazzi siciliani, e non solo loro, ad abbandonare la propria terra, per andare a cercare un futuro migliore altrove, la mafia che collide con il concetto stesso di pace, la mafia che è fra noi anche se non la vediamo e crediamo di esserne al riparo: la mafia, ben definita da Peppino Impastato, un altro martire di questo cancro, sembra essere finalmente arretrata, almeno nell’animo di chi si sta ribellando a una visione del mondo che, oltretutto, rende prigionieri di confini angusti e di tradizioni dannatamente retrograde.

Non vogliamo illuderci che il fenomeno sia scomparso: purtroppo, non è così. Siamo, però, convinti che quei due magistrati, divenuti senza dubbio un modello per moltissimi giovani, stiano facendo la differenza, persino più di quanto non l’abbiano fatta quando erano ancora in vita. Perché oggi non abbiamo davanti a noi soltanto il loro impegno ma anche il loro punto di vista, la loro convinzione nel costruire una società più giusta e a misura d’uomo, la loro idea di dover restituire alla propria terra un minimo di dignità. Parliamo di uomini che hanno inteso la magistratura come una missione, come il senso stesso della loro esistenza e che per il sogno di una società libera e onesta hanno pagato un prezzo altissimo. 

Trent’anni dopo siamo certi che non tutto sia andato perduto e che le manifestazioni in loro ricordo, al netto di qualche ipocrisia, costituiscano un momento decisivo del nostro stare insieme: il momento in cui si aprono gli occhi e si sceglie da che parte stare. E le nuove generazioni, ci sembra evidente, hanno scelto l’amore, la bellezza, la cultura, la conoscenza, il viaggio e la scoperta del mondo. Falcone e Borsellino non ci sono più, al pari di Rita, ma la loro eredità è immensa e le loro idee, sia detto senza alcuna retorica, camminano sulle gambe di chi trent’anni fa ancora non c’era ma, nonostante questo, ha ben presente la differenza fra una società mafiosa e una società democratica. 

Ph.  L’opera di street art realizzata a Palermo da Rosk & Loste © Alessandro Bottone via Wikimedia Commons

Roberto Bertoni

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