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La lezione inascoltata di Pier Paolo Pasolini

by Roberto Bertoni Bernardi

di Roberto Bertoni. Giornalista e scrittore

Pier Paolo Pasolini non appartiene a nessuno. A cento anni dalla nascita, abbiamo infinite conferme del fatto che il poeta di Casarsa fosse uno spirito talmente indipendente che nessun partito, nessun sindacato, nessuna corrente e nessun gruppo di pressione potesse intestarselo, oggi meno che mai.

Pur essendo dichiaratamente comunista, infatti, Pasolini visse con la sinistra italiana una lunga incomprensione, dovuta dapprima alla sua omosessualità, che gli costò l’espulsione dal partito per “indegnità” nell’ottobre del 1949, e poi all’audacia delle sue denunce, sempre troppo lungimiranti, troppo precise, troppo dettagliate, in grado di minare gli equilibri interni a una comunità che, purtroppo, almeno fino a Berlinguer, non ha avuto la forza di aprirsi fino in fondo al mondo esterno e di mettere in dubbio la ragion politica, basata, sia detto chiaramente, anche su un’elefantiaca dose di controverso realismo.

UNO SPIRITO INCONTAMINATO
Pasolini no, lui era uno spirito incontaminato, puro come i suoi ragazzi di vita, come i personaggi dei suoi film, come i simboli della sua cinematografia rivoluzionaria e capace di smuovere le coscienze. Non a caso, il vero Pasolini, quello che amiamo di più, è soprattutto l’intellettuale sferzante che riesce a trasformare la rabbia
in proposta, dedicando la sua vita all’eretica profezia che sola avrebbe potuto costruire un mondo migliore.

Amiamo, dunque, il Pasolini delle poe
sie, di alcuni romanzi e, più che mai, dei film. Nel cinema di Pasolini brilla, difatti, un neorealismo aggiornato e capace di infliggere sferzate alla società dei consumi, assai più difficile rispetto a quello, pur bellissimo, dell’immediato dopoguerra, quando ancora determinati valori di sobrietà
e comunità erano considerati sacri.

Il Pasolini del grande schermo è il cineasta delle periferie, colui che si batte contro una falsa modernità che molti, invece esaltavano in quanto portatrice di ricchezza e benessere, il “Bastian contrario” che si oppone alla vulgata corrente, lo strenuo avversario di alcune derive che adesso ci appaiono chiare nella loro drammaticità ma che all’epoca, all’inizio degli anni Sessanta, venivano considerate, invece, una mano santa per un Paese che usciva dalla miseria e dalla fame e si lasciava definitivamente alle spalle le ristrettezze del passato.

A cento anni dalla nascita, abbiamo infinite conferme del fatto che il poeta di Casarsa fosse uno spirito talmente indipendente che nessun partito, nessun sindacato, nessuna corrente e nessun gruppo di pressione potesse intestarselo, oggi meno che mai.

Pasolini, al contrario, non accettava la società dei consumi, la sua ipocrisia, la sua falsità, le sue illusioni, la fatuità di un modo di vivere che avrebbe condotto alla disumanità e privato l’essere umano della sua anima. Per questo si ribellava, pressoché isolato, a una decadenza che fa il paio con il mito della globalizzazione di fine secolo.

Del resto, al
cuni osservatori e studiosi si sono interrogati su quanto saremmo stati diversi se Pasolini fosse sopravvissuto agli Anni di Piombo e avesse potuto sferzare, da par suo, il decennio successivo: gli anni riflusso, della Milano da bere, del craxismo e dell’incipiente berlusconismo, delle tv private e del nulla della politica che prendeva il posto del tutto della politica che aveva caratterizzato il decennio precedente.

È impossibile a dirsi; fatto sta che una
personalità del suo calibro ha lasciato un vuoto incolmabile dietro di sé, non essendo sostituibile un pensiero tanto lucido, tanto profondo e tanto efficace nello smuovere le coscienze e nell’indurre la cittadinanza a riflettere sul proprio declino.

Pasolini non è mai stato per tutti: divideva eccome. Anche per questo ci auguriamo che a nessuno venga in mente di farne un “santino”, più di quanto non sia già accaduto, come purtroppo capita sempre più spesso in quest’amara stagione in cui tutto viene banalizzato e ricondotto ai nostri canoni interpretativi, rigorosamente post-ideologici e privi della complessità necessaria per analizzare una visione del mondo che non sarebbe andata d’accordo con le semplificazioni che oggi caratterizzano la nostra vita pubblica.

Pasolini è stato un pensatore del dopoguerra, uno “scrittore di borgata”, un uomo che ha sempre consumato le scarpe ed è andato a vedere con i propri occhi la miseria e l’abbandono. Non le ha mai mandate a dire, nemmeno agli amici, come testimonia lo scontro feroce che ebbe nel 1968 con una parte dell’intellighenzia del Pci in merito ai fatti di Valle Giulia, quando si schierò dalla parte dei poliziotti non perché si fosse improvvisamente innamorato dell’ordine costituito ma perché riteneva che i veri proletari fossero i ragazzi in divisa, contrapposti al nascente ceto borghese contestatore che avrebbe segnato gli anni successivi.

Oltretutto, per comprendere Pasolini bisogna
tener conto del suo essere un oppositore per natura, un nemico giurato di ogni conformismo, un uomo pronto a sostenere il contrario della vulgata corrente per il puro gusto di non uniformarsi al pensiero dominante; insomma, un cane sciolto, uno spirito libero, un personaggio restio a lasciarsi incasellare da qualsivoglia convenzione.

L’ESSENZA DEL FASCISMO
Se dovessi indicare il Pasolini più autentico, o quanto meno quello che personalmente ho amato di più, direi quello di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) il suo ultimo fillm, l’opera della disperazione e del disincanto, quasi un preludio di morte, un segno di resa ma, al tempo stesso, indicativo del suo desiderio di battersi !no alla fine.

La ce
lebre invettiva scritta sul Corriere nel novembre del 1974 e il romanzo Petrolio, purtroppo rimasto incompiuto (e pubblicato postumo solo nel 1992 da Einaudi), costituiscono il corredo del suo capolavoro cinematografico. Pasolini, all’epoca, era giunto alla maturità, all’apice del successo e della notorietà. E agiva come se il suo tempo si fosse ormai concluso, come se sentisse avvicinarsi la sentenza di condanna che in tanti, troppi avevano emesso a suo danno.

Del resto, aveva denunciato, di fatto, i mandanti delle stragi che stavano insanguinando il Paese, analizzando le strutture ramificate del potere e mettendo a nudo l’impotenza della politica, l’annichilimento dell’opinione pubblica, la disfatta del pensiero collettivo e il baratro verso cui stavamo precipitando già allora. Aveva detto di sapere ma di non avere le prove e nemmeno gli indizi, eppure la negazione affermava, era essa stessa una condanna a morte della sua persona, in quanto insinuava il sospetto e confermava in chiunque lo avesse letto la sensazione di un potere occulto e superiore che agiva da anni indisturbato, forse senza nemmeno informare il potere ufficiale o, comunque, comandandolo a bacchetta.

Ed è a Salò che Pasolini ambienta l’opera del mar
chese de Sade, squadernando davanti ai nostri occhi il fascismo nella sua essenza più vera e anticipando di quasi trent’anni i lager contemporanei, con il loro carico di misoginia, barbarie e abisso morale e materiale.

Pasolini ha utilizzato sempre e solo l’arma del suo coraggio, e per il suo coraggio è stato assassinato, deturpato, vilipeso e inne dimenticato, salvo poi riapparire, dopo quasi mezzo secolo, in una versione edulcorata e caricaturale che gli avrebbe dato soverchio fastidio. A noi piace ricordarlo per com’era davvero: graffiante, irriverente, eternamente solo e per questo immenso, ancora troppo avanti per un’Italia che non ha mai avuto la forza di fare i conti con la propria storia.

Ph. Particolare della locandina del film Accattone © CopyLeft

Roberto Bertoni

Roberto Bertoni

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