di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di teologia di Roma.
La tragedia in Ucraina segna anche una profonda crisi ecumenica: si amplificano le fratture nell’Ortodossia, si raffreddano i rapporti tra Mosca e Roma e, da ultimo, nel Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) alcune voci autorevoli hanno chiesto la sospensione del Patriarcato di Mosca.
Sono in molti, in queste settimane, a osservare che la tragedia in Ucraina segna anche una profonda crisi ecumenica. In primo luogo, essa amplifica a dismisura alcune fratture interne all’Ortodossia e ne genera di nuove, anche all’interno della sfera d’influenza del Patriarcato di Mosca. Secondariamente, raffredda i rapporti di Mosca con Roma: quest’ultima, da decenni, è interessatissima a rinsaldare i legami con il Cristianesimo ultraconservatore di Russia, in una santa alleanza contro le degenerazioni secolariste: ma certo, il bellicismo kyrilliano rende inevitabile una presa di distanza.
Infine, il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) rischia di esplodere: voci autorevolissime chiedono la sospensione di Mosca dal Cec; ciò però significherebbe sanzionare la chiesa numericamente più consistente dell’intero Consiglio e potrebbe comportare il collasso dell’istituzione ginevrina. Per ironia della sorte, lo psicodramma si svolge mentre la segreteria del Cec è occupata per la prima volta, ad interim, da un ortodosso, padre Ioan Sauca. Egli ha generosamente tentato di istituire una sorta di dialogo con Kyrill, ricevendo una metaforica pacca sulla spalla, accompagnata da un predicozzo di stile putiniano sulle cause della guerra (analoga a quella rifilata a Francesco, stando alle dichiarazioni di quest’ultimo) e dall’invito al Consiglio a “farsi i fatti propri”.
Impossibile, mentre scriviamo (inizio maggio) fare previsioni sullo scenario nel quale si svolgerà l’Assemblea Generale del Cec, prevista dal 31 agosto all’8 settembre a Karlsruhe. In ogni caso, la capacità di sopravvivenza delle istituzioni e dei relativi apparati non dev’essere sottovalutata ed è più che verosimile che, in un modo o nell’altro, il Cec affronterà la tempesta. Va rilevato, però, che la guerra, in questo caso, non è l’origine dei problemi, bensì il loro potentissimo amplificatore.
Il peccato originale del Cec, se così vogliamo chiamarlo, è di essere figlio di una prospettiva evangelica non semplice da applicare nei rapporti con cristianesimi non protestanti. Già parlare di Chiese, al plurale, è incompatibile con la visione di chi è convinto di essere l’unica Chiesa legittima: il che vale, con alcune varianti, tanto per Roma (che infatti non fa parte del Cec), quanto per l’Ortodossia, non solo moscovita.
Quando, a partire dagli anni Sessanta, le Chiese ortodosse si uniscono al Consiglio, “dialogo” per esse, significa spesso illustrare la “Vera Dottrina” a chi non è ortodosso. Le motivazioni di politica ecclesiastica (e non) sono rilevanti per l’adesione. Da un lato, esse svolgono una funzione positiva: durante la Guerra fredda, il Cec costituisce un importante canale di dialogo tra Occidente e impero sovietico; dall’altro, però, le Chiese dei Paesi comunisti (non solo quelle ortodosse, peraltro) sono al tempo stesso vittime della persecuzione e collaborazioniste più o meno forzate. Che proprio esse, dopo il 1989, accusino il Consiglio di filosovietismo è un fatto, a dir poco, paradossale.
La situazione successiva alla caduta del Muro favorisce l’uscita allo scoperto della polemica ortodossa nei confronti delle Chiese occidentali, in particolare protestanti: si rivendica (comprensibilmente) una rappresentanza assembleare proporzionata alla forza numerica, ma soprattutto si sottolinea l’incompatibilità con la mentalità “non cristiana” dell’Occidente, che avrebbe investito anche le Chiese.
Nel frattempo, dopo il Vaticano II, Roma irrompe sulla scena ecumenica, con una strategia alternativa (anche se non dichiaratamente) rispetto a quella, già abbastanza sbiadita, del Cec.
Nel giro di alcuni decenni, il baricentro del business ecumenico si trasferisce a Roma, nella sede del Pontificio consiglio per l’Unità dei cristiani, il quale, come dicevamo all’inizio, si presenta (con alterno successo) come l’interlocutore di elezione dell’Ortodossia, alla quale riconosce una pienezza ecclesiale negata al Protestantesimo.
Il colpo inferto dalla guerra trova dunque un Consiglio ecumenico già indebolito. I fatti diranno se questa crisi sfocerà in una sopravvivenza impoverita dal punto di vista spirituale, oppure se costituirà un’occasione di rilancio, su basi diverse rispetto al recente passato.
Ph. Chiesa della Deposizione della Veste, piazza delle Cattedrali nel Cremlino, Mosca © flowcomm via flickr
Fulvio Ferrario
Professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di teologia di Roma