di Enrico Campofreda. Giornalista e scrittore
Hichem Msabhia vive da nove anni nel nostro Paese come rifugiato politico. Accolto in una fabbrica occupata milanese, si è laureato, lavora, ma per le leggi vigenti non può ancora ricevere la cittadinanza italiana. Oggi dalla provincia di Vicenza continua a seguire la politica sulle due sponde del Mediterraneo.
Hichem Msabhia, trentaquattro anni, è un concentrato di vitalità, intelligenza, cultura e passione che ha detto addio alla nazione tunisina. Nato a Moulares, cresciuto a Métlaoui, quarantamila abitanti sopra l’area lacustre Chott el-Jerid, dove tuttora vive buona parte della famiglia, è in Italia da nove anni. Vi è arrivato da rifugiato politico, passando per Grecia e Francia «Ma è qui che ho scelto di vivere, sebbene per il lavoro la Francia sarebbe stata più conveniente». L’Italia – prima di farla girare ai turisti che accompagna, poiché è una guida turistica fin dall’epoca della sua vita nordafricana – l’ha conosciuta in prima persona: «Inizialmente Roma. Alloggiavo all’ex Fonderia nel quartiere San Lorenzo, pronunciavo solo poche parole d’italiano. Ma già nei mesi seguenti a Milano, frequentando la fabbrica occupata Maflow di Trezzano sul Naviglio che praticava un’autogestione, le parole erano diventate migliaia, perché ogni lingua più la pratichi più la impari».
LOTTE SINDACALI
Lui che ne parla correttamente quattro, sostiene che quelle due esperienze hanno segnato la sua esistenza italiana, non solo per l’ennesimo idioma acquisito, ma per l’intensità delle relazioni sociali, politiche, umane vissute, alla luce di trascorsi nient’affatto semplici che l’accompagnavano. Hichem ha origini familiari legate al lavoro operaio e alla sindacalizzazione che lo caratterizza. Un nonno e il papà provengono dalla regione del bacino minerario di Gafsa, 400 chilometri a Sud-Ovest da Tunisi, dove hanno a lungo operato. Suo padre Dhiab era già andato in pensione quando, nel 2008, c’è stata la catena di scioperi segnati dal braccio di ferro fra l’Unione generale tunisina del lavoro e la statale Compagnia dei fosfati. Una fase d’intensa lotta operaia partita proprio da Moulares e Redeyef e diventata madre delle stesse rivolte dei due anni seguenti, coi Msabhia coinvolti in azioni di solidarietà militante. Della sua investitura politica Hichem ricorda: «La famiglia ha caratterizzato la mia formazione, però ero anche precoce e curioso: affacciatomi alle medie chiesi di leggere il Capitale. In casa sorrisero. Mio fratello maggiore disse: “ci sarà tempo”. Durante le scuole superiori Storia e Filosofia erano le materie preferite. All’università l’impegno politico aumentò, era il periodo degli scioperi minerari, il fermento nel Paese era elevatissimo». Ricorda con emozione quando l’Unione generale degli studenti tunisini convogliava l’attenzione degli universitari e di una parte della popolazione, che sotto il regime di Ben Ali trovava pochi spazi per esprimersi e confrontarsi. «Le facoltà erano enclavi, la gente entrava, ascoltava, interveniva nei dibattiti politici. Noi giovani guardavamo con un occhio critico i sindacati, non ne sopportavamo la burocrazia. Trovavamo intenti comuni coi gruppi trotzkisti, io iniziai a frequentarli».
Oltre ai princìpi ideologici ancor di più era la quotidianità a forgiare Hichem: «Guardavo mio padre, poveretto – oggi ne ha settantacinque e ne dimostra quasi cento – era già messo male vent’anni fa quando è andato in pensione. Comunque lui può ancora raccontarla. A tanti colleghi, consumati dal cancro alla pelle, è andata malissimo perché le misure di sicurezza sul lavoro erano inesistenti. E purtroppo tali sono rimaste. L’area mineraria di Gafsa è una delle più inquinate del Paese e lo sono le località dove i fosfati finiscono per essere trattati dopo il trasporto su rotaia: il porto di Sfax e il golfo di Gabès. In quei posti il tempo si è fermato: da decenni non cambia nulla, l’unica opportunità per chi nasce lì è lavorare in miniera. Personalmente non vedo la zona da un decennio, ma i racconti di parenti e amici e qualche articolo che ne descrive la realtà sono allucinanti. Nessun servizio, un unico ospedale spesso senza energia elettrica. Anche la camera mortuaria non è illuminata, non c’è decoro per i vivi tantomeno per i defunti…». Nessun partito ha mai affrontato la questione, i sindacati sono bloccati dal dilemma: lavoro o disoccupazione, che risulta costantemente in doppia cifra. E nella sciagurata gara con la salute, quest’ultima risulta sempre perdente.
UNA VISIONE LAICA DELLO STATO
All’inizio del 2013, dopo oltre un anno di governo Ennahda, il militante Hichem e parecchi suoi compagni vivono con disappunto l’avanzata della formazione islamista. Lui tuttora ribadisce: «Sono laico, ateo e come altri marxisti – ma penso anche progressisti democratici – non riuscivamo a sopportare il pensiero unico del raggruppamento di Ghannouchi. Il nostro progetto del Fronte popolare puntava a creare un’alternativa al conservatorismo confessionale, pur camuffato da rivoluzionario. In una prima fase ci sono stati confronti e scontri con gli attivisti islamisti, sempre sul piano verbale. Poi il 6 febbraio 2013 [quando il coordinatore del Fronte, Chokri Belaid, venne assassinato] è crollato tutto. L’aria è diventata irrespirabile. In quel momento i gruppi laici hanno avuto l’opportunità di prendere il potere dal basso. Ricordo la tensione: al funerale del compagno Chockri partecipavano un milione di persone. Chi, come me, era in piazza dal dicembre 2010 può fare il paragone: c’era più gente di quando cacciammo Ben Ali. Uomini, donne, bambini, analfabeti e contadini, operai, studenti, avvocati, dottori si mobilitarono tutti. Si poteva occupare il Parlamento, il ministero dell’Interno, il Palazzo di Cartagine, si poteva dare una spallata al regime di Ennahda. Invece il segretario del partito Comunista dei Lavoratori, Al Hammami – un politico stimabilissimo, per carità – fece un passo indietro e l’occasione è sfumata. Temeva la guerra civile, non voleva offrire un pretesto al fondamentalismo armato, ma questo prendeva egualmente i suoi spazi con quella e successive uccisioni».
Il 25 luglio un’altra vittima illustre: Mohamed Brahmi, esponente di movimenti panarabisti, e la situazione per Hichem e compagni diventa pericolosa. Erano noti per l’opposizione dura ai militanti di Ennahda con cui s’erano scontrati, erano stati picchiati e s’erano vendicati. Per come montava la deriva violenta, ciascuno rischiava la vita. I dirigenti predisposero per alcuni l’espatrio in Francia, altri finirono in Algeria e in Grecia. Msabhia giunse a Ioannina, località lacustre, dove pensava di fermarsi un mese, tanto per far calmare le acque. Gli dissero che le acque s’agitavano ancor di più. Il futuro era segnato: Unione europea con tanto di richiesta da rifugiato politico. Del passaggio dalla Francia all’Italia il nostro ha già detto. Ma torna sull’Islam politico, per lui non un sassolino, un masso con cui fare i conti.
«Ho conosciuto attivisti islamisti delle mie parti di cui poi ho saputo le gesta in Siria sotto il Daesh [la jihad islamica tunisina nasce a metà degli anni Ottanta, mentre studi sul terrorismo indicano Tunisia e Marocco come nazioni da cui proviene il maggior numero di foreign fighters dell’Isis]. Il fanatismo di taluni di loro è indescrivibile. Personalmente non credo all’Islam moderato, fra armati e parlamentaristi esiste una matrice fondamentalista comune. Anche chi rinnega il Califfato non ammette alternative. Magari queste fazioni, definiamole mascherate, agiscono per interesse di potere, ma non le vedo distinte da chi pratica apertamente la violenza, fosse Qaeda, Isis o altri. Ne ho discusso anche coi docenti della Ca’ Foscari in occasione della mia tesi magistrale in Relazioni internazionali comparate, a mio avviso Islam e democrazia sono incompatibili. Le teorie dell’Islam politico in circolazione non prevedono diritti per altre fedi, figurarsi per i laici. Un articolo della nuova Costituzione approvata col recente referendum, non differisce nella sostanza dall’antico testo di Bourguiba, che sottolineava l’appartenenza araba e la fede musulmana della nazione, nonostante dicesse: la Tunisia è un Paese libero. Quale libertà abbiano soggetti non musulmani sotto una direzione islamica l’abbiamo visto nel corso dei decenni. Certo, i due presidenti-padroni [Bourguiba e Ben Ali] hanno compiuto manipolazioni, usando riferimenti all’Islam per ingraziarsi masse permeate da secoli di fede musulmana. Stessa manovra che fa Saïed. Il successo di questo referendum era scontato, visto che gran parte della politica non partecipava. Siamo davanti a una fase populista e autoritaria che rimpiazza il percorso pseudo democratico della Fratellanza musulmana supportato da Turchia e Qatar. Occorrerà vedere cosa accadrà nei prossimi mesi con le legislative, vero banco di prova per Saïed. Al futuro tunisino non servono nuove costituzioni bensì una rinascita economica. Bisogna scardinare il potere dei clan familiari che si sono impossessati delle maggiori attività. I nomi son sempre gli stessi: El Meddeb nel settore agroalimentare, Idriss in quello alberghiero, Jnaiih ancora per hotel e da un po’ di tempo calcio, Bouchamaoui per banche, idrocarburi e fabbriche tessili, poi i tre fratelli Mabrouk (Mohamed Ali, Marwan e Isamaik) attivi nella grande distribuzione, Ben Ayed nell’edilizia e nel commercio dell’alcol, mentre i Lofti Ali gestiscono il trasporto mercantile su gomma che costa quattro volte in più di quello ferroviario».
A QUANDO LA CITTADINANZA ITALIANA?
Un orizzonte inalterato da decenni, perché questi gruppi travalicano epoche e regimi, addirittura i Trabelsi (imparentati con Ben Ali) sono transitati presso la corte saudita, costoro restano e condizionano la vita di milioni di abitanti. Intanto senza il grano ucraino l’alimentazione di quattro milioni di poveri è a rischio, e senza gli aiuti del Fondo Monetario anche gli stipendi dei 700.000 funzionari amministrativi “garantiti” diventano insicuri. Hichem continua a puntare gli occhi sul suo Paese sebbene si senta italiano: «Da quando mi sono trasferito nei dintorni di Vicenza ho minori occasioni per incontrare i compagni romani e milanesi con cui ho vissuto i primi intensissimi anni italiani. Ricordo il senatore Malabarba, don Ciotti di Libera, volontari della Caritas, attivisti dei Centri sociali, i lavoratori delle autoproduzioni della rinata ‘Rimaflow’, restano tutti nel mio cuore. Come rifugiato ho inoltrato domanda per la cittadinanza italiana. Prima del Decreto Sicurezza di Salvini si acquisiva dopo cinque anni dall’accoglienza, ora ne servono dieci. Volevo partecipare ai concorsi del ministero degli Esteri e non mi è stato possibile. Ma non demordo, il tempo mi è amico. Spero che le sinistre, in Italia come in Tunisia, possano governare, correggendo i troppi errori compiuti anche da loro stessi».
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Enrico Campofreda
Giornalista e scrittore