di Samuele Pigoni. Direttore della Fondazione Time2. Si occupa di management, progettazione sociale e filosofia
Con Inclinazioni. Critica della rettitudine la filosofia muove un ulteriore passo nella decostruzione del soggetto moderno.
A fine anni ’90 usciva Tu che mi guardi tu che mi racconti di Adriana Cavarero (Feltrinelli, 1997). Attraverso il passaparola – per chi era cresciuto tra pensiero della differenza, movimenti femministi e pratiche politiche-culturali riconducibili a “il personale è politico” – il libro era diventato un testimone importante che si consigliava, si prestava senza riaverlo indietro e del quale – allora, via mail – si copiavano, commentavano e spedivano interi brani. Uno su tutti il racconto iniziale ripreso da Karen Blixen: un uomo che vive presso uno stagno, una notte viene svegliato da un gran rumore, esce nel buio e cerca di dirigersi verso il rumore per capire di cosa si tratta; nel buio cade e inciampa più volte finché non trova una falla da cui escono acqua e pesci del lago; riparata la falla, torna a letto.
La mattina, quando si affaccia alla finestra, nota con sorpresa che le orme dei suoi passi, delle sue cadute, e dei suoi inciampi hanno disegnato sul terreno una figura di cicogna.
Con quel lavoro Cavarero parlava di filosofia della narrazione e si inseriva nella scia della critica all’idea che l’identità personale sia qualcosa di dato in partenza, una sostanza che ci definisce a partire dal nostro venire al mondo, e che poi, durante la vita di ciascun individuo si manifesta e sviluppa in coerenza o meno con le proprie premesse.
Sulle tracce dei lavori di Hannah Arendt sulla nascita e l’unicità (Vita activa, 1958), Cavarero osservava l’identità a partire dalla considerazione che ciascuno e ciascuna di noi, vivendo e agendo nel mondo la propria unicità, lascia dietro una storia di vita (il disegno della cicogna), e che questa storia di vita costituisce tutto ciò che possiamo dire su chi siamo.
L’identità che corrisponde a una storia di vita è ciò che ci lasciamo dietro, ciò che non vediamo davanti a noi e pertanto non possiamo progettare o controllare. Una storia di vita non si definisce e può avere un’espressione verbale soltanto nel racconto che gli altri fanno di noi.
Chi ognuno e ognuna di noi è può solo essere narrato e il racconto delle storie di vita che ci lasciamo dietro non si dà mai nella forma dell’autobiografia nella quale io posso dire chi sono raccontando la mia storia, ma solo nella forma della biografia, nella quale è qualcun altro a raccontare la mia storia.
Vent’anni dopo Adriana Cavarero sviluppa in maniera sorprendente il percorso della decostruzione del soggetto con un volume altrettanto prezioso – forse accolto da meno
mani che si scambiano libri, da movimenti di ricerca politica più stanchi – nella direzione di una filosofia dell’inclinazione.
Con Inclinazioni. Critica della rettitudine (Raffaello Cortina, 2013) infatti la filosofa muove un ulteriore passo nella decostruzione del soggetto moderno: il soggetto può essere ripensato a partire dalla relazione e interdipendenza originarie ma può anche essere rivisto quanto alla sua postura.
Il testo prende le mosse dall’ipotesi che la filosofia non apprezzi granché l’inclinazione, preferendo da sempre una certa rettitudine della razionalità e dunque del soggetto. Come direbbe Foucault si potrebbe rileggere la storia della filosofia come genealogia dei dispositivi di verticalizzazione il cui fine è l’uomo retto.
Prendendo sul serio il modello relazionale, dice Cavarero, possiamo invece ridiscutere la rettitudine del soggetto e indagare le forme possibili della sua inclinazione verso l’altro. È ancora Hannah Arendt a guidare i passi della filosofa italiana a partire dalla considerazione che ogni «inclinazione ci sporge all’esterno, ci porta fuori dall’io». Di qui prende le mosse una nuova geometria dell’io cui si offre la possibilità di essere visto al di fuori della postura retta e verticale dell’Io moderno: scalzato dal suo baricentro interno, il soggetto inclinato sporge, pende al di fuori di sé, su cose e persone tanto da perdere la propria stabilità.
Oltre che di un problema morale si tratta di una questione strutturale, ontologica: un “io” pensato a partire dalla sua originaria inclinazione, non è più dritto, pende dall’asse verticale su cui si regge la sua pretesa di soggetto autonomo, indipendente, bilanciato e performante su se stesso. La domanda a questo punto è: che vantaggio c’è a ripensarci – con Cavarero – inclinati e inclinate? Che impatto sociale ha un discorso che inclina il soggetto e lo fa sporgere verso l’altro?
Il tema è quello della inevitabile cura reciproca alla quale siamo consegnati in quanto viventi; dell’ascolto della storia dell’altro che non si fa giudizio; della condivisione delle ombre che una geometria non retta necessariamente genera nello spazio della relazione; di una teoria plurale del soggetto che piega ogni verticalizzazione, ogni abilismo, ogni pretesa universalizzante. Ogni postura verticale, viene da dire, è una postura bellica e una filosofia dell’inclinazione è qualcosa di cui abbiamo decisamente bisogno.
Ph. Christopher Sardegna via Unsplash
Samuele Pigoni
Direttore della Fondazione Time2. Si occupa di management, progettazione sociale e filosofia