di Ilaria Valenzi. Avvocata, ricercatrice in diritto delle religioni, Centro Studi Confronti.
A pochi giorni dall’insuccesso registrato dal referendum sulla giustizia del 12 giugno scorso, il peggiore nella storia repubblicana in termini di scarsa affluenza alle urne, il 16 giugno il Senato ha definitivamente approvato la riforma del Consiglio superiore della magistratura (Csm) e dell’ordinamento giudiziario.
Quella che per brevità viene definita la riforma Cartabia è in realtà una lunga operazione iniziata sotto il precedente Governo, che ha visto l’attuale guardasigilli protagonista di un percorso a tappe, l’ultima delle quali conclusasi con l’ampio sostegno di pressoché l’intero arco parlamentare. Il disegno di legge recentemente approvato costituisce infatti solo il terzo pilastro di un progetto più ampio, teso a realizzare quegli interventi di velocizzazione e aumento dell’efficienza del sistema giustizia, resi necessari dalle specifiche richieste formulate in tal senso dalla Commissione europea per poter usufruire dei fondi del Piano nazionale ripresa resilienza (Pnrr).
Si potrebbe pertanto sostenere che, sebbene il tema della riforma della giustizia occupi l’agenda politica del Paese da decenni, la spinta alla sua realizzazione (nelle forme e nei modi in cui essa è stata concepita dal Governo Draghi e con gli attuali equilibri tra le forze politiche della maggioranza) è arrivata da lontano, imposta dalle esigenze improrogabili della ripresa economica e dall’ingente flusso di denaro in entrata, che esige un più forte contrasto ai fenomeni di corruzione, anche mediante la contrazione dei tempi del processo penale e, in generale, un ammodernamento dell’intero settore (si pensi, ad esempio, alle misure in favore della digitalizzazione del processo penale e all’implementazione degli istituti di risoluzione alternativa delle controversie nel processo civile).
L’ultima in ordine del tempo a essere riformata è stata la questione centrale del funzionamento dell’organo di governo della magistratura. Giova ricordare che la Costituzione della Repubblica riconosce alla magistratura la valenza di «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104 Cost.) e individua nel Csm l’organo di amministrazione della giurisdizione e di garanzia dell’autonomia ivi riconosciuta. Non a caso lo stesso Consiglio è presieduto dal presidente della Repubblica, garante per eccellenza del mantenimento dell’equilibrio costituzionale tra i tre poteri dello Stato e, pertanto, anche della massima autonomia e indipendenza del potere giudiziario da quello legislativo ed esecutivo.
L’intervento riformatore giunge in un momento storico difficile, che da più parti è stato definito in termini di crisi etica dell’associazionismo giudiziario, con evidenti ripercussioni anche sul suo organo di governo. Il riferimento è ai fatti di Perugia, una durissima indagine per corruzione, che ha investito in prima battuta l’ex pm ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara e che ha finito per travolgere l’intero corpo della magistratura, uscito dalla vicenda sfibrato e ridotto ai minimi in termini di credibilità sociale e fiducia istituzionale.
In tale contesto, la riforma Cartabia è intervenuta introducendo nuove regole di funzionamento interno delle correnti e una nuova legge elettorale di stampo marcatamente maggioritario, misure che vanno ad aggiungersi a nuove modalità di valutazione per l’assunzione di incarichi direttivi e all’introduzione di un fascicolo personale del magistrato, diretto a valutarne la professionalità anche attraverso l’utilizzo di dati statistici sulla “resistenza” nel tempo dei provvedimenti emessi. Ancora, di rilievo la misura atta a bloccare il meccanismo delle cosiddette “porte girevoli”, che impedisce il ritorno in magistratura di chi abbia ricoperto cariche elettive e quella che, solo in parte, incrocia uno dei quesiti referendari di punta recentemente proposti, da sempre parte del dibattito politico, relativa alla separazione delle carriere dei magistrati.
La riforma propone una soluzione a metà strada, consentendo un solo passaggio da incarichi requirenti a giudicanti e viceversa, nell’arco dei primi dieci anni dall’assegnazione della prima sede. Non a caso lo sciopero indetto dalla magistratura ha raccolto le adesioni per lo più delle e dei giovani magistrati, che hanno denunciato il carattere afflittivo delle misure introdotte, limitativo degli spazi di autonomia decisionale e di carriera, oltre al rischio di standardizzazione del diritto, che mal si concilia con il ruolo del giudice interprete continuo della legge.
Molto potrebbe dirsi sull’intervento riformatore. Colpisce il generale consenso riscontrato in parlamento, che lascerebbe pensare a una generale adesione alle indicazioni inderogabili che provengono da Bruxelles, ma anche a un rischio di innocuità politica delle misure introdotte. Certamente il banco di prova sarà costituito dalla ricerca di un rinnovato equilibrio tra il ruolo costituzionale incarnato dal potere giudiziario e il superamento delle disfunzioni di un sistema in crisi, che non risponde alle necessità di giustizia della cittadinanza. Una ricerca che non può essere lasciata sulle spalle della sola magistratura, ma che richiede una visione condivisa e partecipata della tutela dei diritti.
Ph. Tingey Injury Law Firm © via Unsplash
Ilaria Valenzi
Avvocata, ricercatrice in diritto delle religioni, Centro Studi Confronti