L’Ong MAM Beyond Borders e il sostegno alle donne migranti in gravidanza
di Asmae Dachan. Giornalista e scrittrice.
Mitilene, isola di Lesbo. L’auto di Sara procede lentamente tra le salite e le discese della strada semideserta, finestrini abbassati per far entrare aria, in una torrida giornata d’agosto. Sara è la giovane coordinatrice del progetto Grecia di MAM Beyond Borders [www. mambeyondborders.org], una piccola organizzazione di volontariato italiana nata nel 2014, che dal 2020 sostiene a Lesbo donne migranti in gravidanza e nel periodo del puerperio.
Come ogni lunedì al mattino presto Sara ha già condiviso con le altre volontarie e le mediatrici linguistiche il programma della settimana, scandito tra incontri all’interno del campo profughi di Mavrovouni, attività di formazione sulla salute sessuale e riproduttiva da svolgersi in diverse sedi e visite alle neomamme che abitano negli shelter sparsi sull’isola. Con lei viaggia Teresa, ventitreenne ostetrica, occhiali sul naso, capelli raccolti in una coda. Sono i suoi ultimi giorni sull’isola, poi farà ritorno in Italia dove inizierà un lavoro in ospedale. Lucia prenderà il suo posto.
DESTINAZIONE MAVROVOUNI
La loro prima destinazione del giorno è proprio Mavrovouni, il campo profughi sorto all’indomani dell’incendio che ha devastato il famigerato hotspot di Moria, nel 2016.
Procedendo verso la destinazione l’auto supera un ecomostro abbandonato da anni, sulla cui facciata si legge anche a distanza di chilometri, “Close Moria. Smash fascism”. Per gli abitanti dell’isola e per i profughi che hanno abitato quello spazio, che molti descrivono come “l’inferno”, Moria è stata e resterà per sempre una ferita aperta, un punto molto basso nella storia dei diritti umani. Un incubo da non ripetere. Nel momento di massimo afflusso nel campo si sono concentrate oltre 20mila persone, di varie nazionalità, in una situazione estremamente precaria e di degrado.
L’hotspot è completamente circondato da un muro e da filo spinato; al suo interno abitano circa 1.500 persone, per metà giovani uomini e per la restante metà donne e bambini. Per accedere le volontarie di MAM Beyond Borders, così come tutti i membri delle Ong autorizzate a operare nel campo, si sottopongono a una serie di controlli.
I profughi entrano passando il controllo esterno e altri due controlli all’interno, con verifica del documento di riconoscimento che li autorizza a sta- re nell’area, passaggio al metal detector e ispezione di eventuali effetti personali. Si cerca di garantire un alto livello di sicurezza, tanto che l’area degli uomini single è isolata da quella dove alloggiano bambini, donne e famiglie. Si cerca così di arginare i rischi di molestie o violenze, che a Moria, stando ai racconti dei testimoni, erano invece all’ordine del giorno. In uno spazio a parte, isolata da tutto il resto, c’è poi l’area della quarantena, dove i nuovi arrivati devono passare un periodo di circa cinque giorni. L’area è completamente militarizzata e solo la presenza dei volontari delle Ong rende il clima più disteso e amichevole.
Le operatrici di MAM Beyond Borders si dirigono verso l’iso box [una struttura prefabbricata simile a un container] di una giovane somala, Amina [tutti i nomi di profughi/e sono di fantasia per proteggerne l’identità] in attesa del suo primo bimbo. In attesa anche dei documenti necessari per lasciare legalmente l’isola e proseguire verso una destinazione che permetta a lei e al marito di cominciare una nuova vita. Documenti che, per loro, come per altre migliaia di persone migranti arrivate dal mare, sembrano non arrivare mai, in conseguenza delle nuove leggi. Dopo l’accordo siglato tra Grecia e Turchia nel 2016, infatti, i migranti provenienti da Siria, Iraq, Somalia, Afghanistan, Bangladesh e Pakistan sono sottoposti a un interrogatorio preliminare al momento dell’arrivo, per stabilire se per loro la Turchia rappresenti un Paese sicuro.
I migranti incontrano un avvocato solo dopo il primo interrogatorio, e si trovano a rispondere senza conoscere le procedure, i propri diritti e cosa sia importante raccontare della propria vicenda. Durante l’interrogatorio sono assistiti da un mediatore, come previsto dalla legge. Per alcune lingue molto particolari, come il lingala, si aspetta di trovare un professionista specifico, oppure l’intervista viene fatta in una seconda lingua, come inglese o francese, col rischio però che i migranti non capiscano bene le domande. Se chi conduce l’interrogatorio ritiene la Turchia un Paese sicuro per il richiedente asilo, si procede con il diniego della domanda e bisogna ricominciare tutto da capo, cercando di districarsi tra le intricate e costose maglie della burocrazia, affrontando l’incognita del tempo.
L’ATTESA DI UNA CHIMERA
Il tempo dell’attesa sull’isola di Lesbo pare scorrere in modi diversi. Un giorno, un mese, un anno, non sembrano avere la stessa durata per i profughi che aspettano il rilascio dei documenti di viaggio e per le persone libere. I primi sono come sospesi in un’attesa logorante, in cui l’incertezza consuma come una goccia d’acqua che scava nella roccia. Ai secondi il tempo sembra non bastare mai, tra impegni vari, così come corre anche il tempo per i turisti che scelgono questa destinazione per le loro vacanze, coi loro abiti freschi e il bagaglio leggero. Leggero come i documenti che portano in tasca e che permettono loro di muoversi, di decidere cosa fare e dove andare, di arrivare e ripartire dall’isola come e quando vogliono. Di essere padroni del proprio destino. Questo diritto alla gestione della propria vita non è garantito a tutti e in molti si sentono prigionieri, in ostaggio della burocrazia.
Gli operatori delle Ong che lavorano sull’isola sono quasi tutti europei e riconoscono il privilegio che i rispettivi passaporti concedono loro. Per questo si impegnano, ognuno con le proprie competenze e i propri mezzi, a creare un clima accogliente per i bambini, le donne e gli uomini che arrivano da lontano scappando da guerre, persecuzioni, fame, costrizione all’arruolamento o alla prostituzione, sognando una libertà che purtroppo in Europa per loro non esiste realmente, almeno non nell’immediato. I volontari sono tutti giovani, parlano più lingue, sognano un’Europa dei diritti e un mondo più inclusivo ed egualitario, e ogni giorno provano ad alleviare le sofferenze dei migranti e a preservarne la salute e la dignità.
Per Amina e per le altre migliaia di profughi che si trovano a Mitilene, il pensiero di quei documenti rappresenta un sogno, una chimera, che a volte resta irraggiungibile per molto tempo. Lei ha diciotto anni, il marito diciannove, vorrebbero iniziare un capitolo nuovo della loro vita in un ambiente che non sia ostile. C’è un’attesa, tuttavia, che per Amina sta per finire e che è tutta un alternarsi di ansia e gioia. Accarezzandosi il ventre ascolta la mediatrice linguistica, che dall’inglese traduce al somalo le parole dell’ostetrica Teresa che fa le ultime raccomandazioni, ricordandole che non potrà assisterla durante il parto, ma che ci sarà l’ostetrica dell’ospedale.
Al momento del parto le neomamme vengono infatti portate alla locale struttura ospedaliera, fuori dal campo, dove danno alla luce i loro bimbi e vengono poi ricoverate in una stanza da sei letti destinata solo alle rifugiate.
Pur nascendo sulla stessa isola, sotto lo stesso cielo, i bambini greci e quelli di origine migrante che vengono alla luce in quella struttura hanno destini diversi, segnati ancor prima di vedere la luce. I primi nascono liberi, i secondi prigionieri della burocrazia e di leggi complesse. Generalmente, quando vengono al mondo, sono comunque tutti circondati di amore, ma ci sono anche situazioni diverse, dove alla nascita di un bambino non corrisponde anche la nascita di una madre, per molte ragioni, non da ultimo l’aver subìto una violenza sessuale. La mano delle volontarie di MAM Beyond Borders è sempre tesa verso tutte le donne, sia che vivano la gravidanza con gioia, sia che aspettino un bimbo non voluto, con il timore di non sapergli dare amore.
Fuori dalla “casa” di Amina si sentono voci confuse, bambini che giocano, persone che chiacchierano in varie lingue, forze dell’ordine che parlano in greco, la lingua locale, che in pochi tra i migranti riescono però a imparare. La seconda visita della giornata è destinata a Laleh, una mamma afghana che sta allattando e che ha qualche difficoltà. Teresa le parla dolcemente, tradotta dalla mediatrice di lingua farsi; gesticola, sorride, accarezza il bimbo e incoraggia la donna che ha davanti ad avere fiducia.
La donna e il marito sono scappati dall’Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani. Sono entrambi giovani, cresciuti in un Paese che voleva lasciarsi la guerra e l’integralismo alle spalle, ma che purtroppo è stato nuovamente ferito dalla furia estremista. Entrambi laureati, hanno lasciato la città in lacrime dopo aver scoperto che lei era in attesa. Laleh non voleva rischiare di finire prigioniera del burqa e di dare alla luce la sua creatura in quel contesto violento e ostile.
Oggi sorride, confidando che la loro permanenza al campo e sull’isola possa avere presto una fine, che nessuno li forzi a tornare il Turchia, dove hanno passato diversi mesi, né tantomeno in Afghanistan, e possano proseguire verso il Canada. Tra le tende e i box del campo si disegna una geografia del Sud del mondo più sofferente. Afghani, congolesi, somali, etiopi, eritrei, siriani, curdi, iracheni, iraniani si incontrano per la prima volta sull’isola e condividono le stesse sofferenze, le difficoltà, le attese, ma anche i sogni. Il sogno della libertà, e il sogno di vivere in un mondo dove i loro diritti e le loro vite abbiano un valore. A volte, soprattutto tra le donne, proprio quello scoprirsi come esseri umani che condividono il medesimo destino porta alla nascita di belle amicizie, sostenute anche dalle attività dei volontari, che sono aperte a tutti a prescindere dalla nazionalità, dall’etnia e dalla religione.
L’arrivo delle ragazze di MAM Beyond Borders per le donne del campo è diventato un appuntamento atteso, quasi una festa. Queste volontarie, così come altri volontari di Ong che operano dentro e fuori Mavrovouni, rappresentano per i migranti una ventata di speranza e fiducia, elementi che su quest’isola è facile perdere.
Nessuna delle operatrici ha mai fatto esperienza diretta della maternità, ma con il loro fare sanno essere materne e rassicuranti anche con persone molto più grandi, sanno ricreare intorno alle gestanti quel clima di solidarietà femminile che spesso circonda una donna in attesa.
Sara, coi suoi grandi occhi azzurri e il sorriso rassicurante, prende in braccio bambini, si ferma a salutare le persone, scambia due battute con chi le va incontro. Sembra che nei suoi ventisette anni abbia vissuto tante vite, facendo esperienza dell’empatia, dell’ascolto, della solidarietà. Sa farsi ascoltare anche dai mariti delle future mamme e neomamme, spesso figli di una cultura dove le questioni legate alla gravidanza e all’allattamento non coinvolgono gli uomini. Su quest’isola è però importante essere uniti, affrontare le questioni più delicate insieme, cercando di creare intorno ai nuovi nati un clima il più possibile accogliente e rassicurante, cercando di vincere la condizione di solitudine estrema in cui ci si trova.
Lucia, la nuova ostetrica, affianca Teresa al corso sulla salute sessuale e riproduttiva, che si tiene fuori dal campo. Il passaggio di consegne tra le due volontarie avviene in un momento in cui ci sono diverse donne al campo giunte quasi a termine della gravidanza. L’ostetrica di MAM Beyond Borders mostra slide, risponde alle domande, dà spiegazioni. Durante il confronto con le donne che si sono riunite intorno a un tavolino con qualche dolcetto e tazzine di caffè si sorride, si vince l’imbarazzo, si sfatano tabù, ma emergono anche tematiche dolorose come la violenza di genere e le mutilazioni genitali femminili.
Nel bagaglio di ogni donna migrante si nascondono tante storie, tante tragedie che spesso sono state represse, taciute, ma che non sfuggono agli occhi attenti delle volontarie. A volte bastano una parola o un abbraccio per sciogliere la tensione, per vincere la ritrosia, per sconfiggere il senso di solitudine che soffoca queste donne. Al tramonto, come ogni giorno, l’auto di Sara fa ritorno a casa. Il tempo di parcheggiare, e arriva una notifica. Mariam è in travaglio.
Ph. La statua della Madre dell’Asia Minore a Mitilene @Asmae Dachan

Asmae Dachan
Giornalista e scrittrice