di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografco, giornalista. Direttore della rivista Gli asini
Se Rafaello Matarazzo nel suo Giuseppe Verdi ha saputo spiegare a tutti una grande vita e una grande musica su uno sfondo storico accurato, il biopic su Ennio Morricone di Giuseppe Tornatore risente del fatto che il cinema è oggi un mezzo di espressione del tutto secondario.
Mi è capitato di vedere a una sera di distanza, in casa, i dvd di un vecchio film di Raffaello Matarazzo, la biografia di Giuseppe Verdi, del 1953 (recuperabile su internet), e il recentissimo lungometraggio documentario Ennio che Giuseppe Tornatore ha dedicato alla vita e alle opere di Morricone. Non l’avevo visto in sala, persa ormai da tempo l’abitudine alle sale…
Ieri e oggi: un rapporto con la musica radicalmente cambiato, di cui posso parlare da ascoltatore famelico (oggi) e da spettatore famelico (ieri). Matarazzo è stato un regista centrale nella storia del nostro cinema per la capacità quasi unica di saper parlare al pubblico più vasto, che nel nostro dopoguerra e fino agli anni Sessanta dello scorso secolo era formato da analfabeti o semi-analfabeti.
Ha continuato a suo modo l’impresa della letteratura dell’Ottocento, la più grande – da Lev Tolstoj a Victor Hugo e da Charles Dickens a Alessandro Manzoni – come la più povera – da Eugène Sue a Carolina Invernizio – di raccontare la bontà e la cattiveria del genere umano sullo sfondo di società sempre rigidamente classiste.
E lo ha fatto su una base morale essenzialmente cattolica e in qualche modo primaria, con il Bene e il Male nettamente distinti, ma anche facendo ai suoi spettatori la domanda evangelica di cui ci si dimentica troppo spesso: chi è senza peccato? Che, per inciso, è anche il titolo di uno dei suoi film più visti e più amati, della serie Titanus interpretata da Amedeo Nazzari, Yvonne Sanson e Folco Lulli (Catene, Tormento, I figli di nessuno, ecc.), che incarnavano personaggi tipici anche della sceneggiata napoletana: “Isso”, “Essa” e “’o Malamente”.
Una fedele collaboratrice di Matarazzo mi raccontò che una volta egli fece rifare un sacco di volte una scena madre a Nazzari/Sanson dicendo che, se non riuscivano a far piangere lui, il pubblico non avrebbe pianto e il film non sarebbe piaciuto… Sì, sono cresciuto, in una famiglia di analfabeti e semianalfabeti, a forti dosi di Matarazzo e di Totò…
Tornando al suo Giuseppe Verdi (cui Il Mereghetti. Dizionario dei film dà tre stelle e dedica una scheda lunga e bella), è un film davvero “per tutti”, che sa spiegare una grande vita e una grande musica su uno sfondo storico accurato. Si so!erma soprattutto sulla vicenda della Traviata, legandola alla storia di un a!etto centrale nella vita di Verdi.
Insomma, Matarazzo capiva e comunicava, non era un regista da Oscar (ma se avesse lavorato a Hollywood l’avrebbe anche avuto…) ma è stato un grande regista e una gran brava persona. Il caso di Morricone è assai diverso, ché sono passati due secoli dal tempo di Verdi e uno da quello di Matarazzo, e il cinema è oggi un mezzo di espressione del tutto secondario, ucciso nel rapporto col pubblico dai suoi “gli ed eredi tecnologici, da altri modi di comunicare e di cercar di piacere.
Tornatore si è messo diligentemente a servizio di Morricone, intervistando chi l’ha conosciuto e chi ha lavorato con lui, soprattutto i registi, in mezzo mondo. La massa di elogi di cui lo si ricopre mi è sembrata invero eccessiva, e forse Verdi non ne ha mai avuti altrettanti, anche se l’opera lirica era il cinema di allora.Morricone teorizza il suo lavoro meglio di tutti. Sa bene quel che ha fatto, ci ha molto pensato sopra.
Parlando di un suo commento per un film diventato famoso (e i più famosi sono stati e restano quelli, di sovrana spregiudicatezza linguistica, di Sergio Leone, grande regista pur nell’esagerazione e, alla lettera, nella parodia) parte dicendo di essersi ispirato a un brano, un attacco, una variazione di Bach, di Mozart, di Beethoven e altri grandi “classici” per usarli in una direzione bizzarra, nuova, adatta ai film da commentare. In definitiva: sorprendentemente kitsch.
Del kitsch – un tormentone degli anni Sessanta e Settanta – non si parla più da tempo, ed è come se si fosse accettato che ormai tutto sia diventato kitsch. Sì, Morricone è stato un grande musicista in quanto, possiamo dire, “re del kitsch”, dell’adattamento della grande cultura alla cultura dello spettacolo di massa del suo tempo. Ma di un kitsch davvero invadente, ossessivo… Luis Buñuel detestava la musica nei film, diceva che l’unica accettabile era quella che veniva dalla storia, quella che si sentiva per strada o se i protagonisti andavano a un concerto.
La considerava con ragione un ricatto, perché dava emozione a film magari inerti e noiosi. La musica per film ha salvato molto film mediocri. Ho incontrato una sola volta Morricone – persona molto simpatica e molto civile – a un festival di Venezia, grazie a Sergio Citti per un film del quale aveva scritto la musica facendosi pagare poco o niente. Morricone mi chiese perché non lo avessi nelle mie grazie e io gli ripetei quanto avevo scritto di un film della Cavani da lui musicato e “salvato”: «un film di Ennio Morricone commentato dalle immagini di Liliana Cavani».
Illustrazione di Doriano Strologo
Goffredo Fofi
Scrittore, critico letterario e cinematografco, giornalista. Direttore della rivista Gli asini