di Antonio Valerio Spera. Regista & Laika. Street artist romana.
Intervista a cura di Luca Attanasio. Giornalista e scrittore.
Il muro per abbattere i muri. Life is (not) a game, il docufilm esordio alla regia di Antonio Valerio Spera presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, racconta due anni di attività artistico-politica di Laika, l’ormai nota street artist romana, passata alla ribalta per poster quali Giulio Regeni che abbraccia Patrick Zaki (“Questa volta andrà tutto bene”) o del bimbo afghano con la testa fasciata per una bomba, esposto all’indomani della morte di Gino Strada (“Gino ho paura”). L’ascendente parabola mediatica di questa artista battezzata da qualcuno Banksy italiana, che si mostra in pubblico rigidamente con una maschera bianca sul volto, la tuta da lavoro, la parrucca rossa e la voce filtrata, ruota attorno al muro come metafora e come barriera fisica.
Sul muro, la tela della “galleria d’arte più democratica del mondo” Laika, che si definisce un’“attacchina”, in blitz notturni affigge poster che sono documenti politici e che, anche se rimossi un attimo dopo da mani censuranti e preoccupate, fanno parlare molto più di mille dibattiti o articoli andando al di là delle pareti, finendo per abbatterle. Contro i muri della vergogna che separano, discriminano, isolano e rinchiudono, Laika si scaglia con irruenza. Come quella notte di giugno del 2021, quando, con l’aiuto della sua squadra, piazza a Viale Regina Elena, proprio davanti all’ingresso dell’Università Sapienza di Roma, un lunghissimo manifesto dal titolo che non lascia dubbi, “The wall of shame”. Sull’opera compaiono i post di decine e decine di “leoni da testiera”, con relativi nomi e cognomi in evidenza, che si lasciano andare a commenti ferocemente razzisti. E infine, i muri invalicabili che l’Europa erige ai confini per ricacciare i migranti indietro dopo averli malmenati, torturati, segregati in ghetti o in veri e propri lager o lasciati morire: per cercare “il muro giusto”, Laika è andata alla frontiera tra Bosnia e Croazia e ha inscenato le sue performance artistiche proprio in mezzo a loro, dentro edifici fatiscenti, tra disperati che tentano l’affondo alla fortezza Europa, in ciabatte, tra la neve.
Il film, dunque, è bellissimo. Perché bellissime e potenti sono le tante storie tutte generate dalle opere di Laika che si intrecciano, perché bellissime sono la sceneggiatura e la fotografia, perché bellissima è Laika.
Come vivi questo scatto di visibilità che dai muri, principalmente romani, ti proietta sul grande schermo?
Ancora devo realizzare ciò che è accaduto ieri (conferenza stampa di presentazione e “prima” del film al Festival del Cinema di Roma, ndr) e metabolizzarlo. Ma sono contenta perché ho accettato una sfida e l’idea che le mie opere potessero avere una cornice permanente, nessuno può più staccarle, così come del fatto che i miei messaggi riescano ad andare oltre il muro, mi aiutano a tenere vivo il dibattito e far parlare di cose di cui non si parla. Un buon modo per “puntare allo spazio” [è un mantra che Laika ripete sempre e che ricorda la cagnolina lanciata nello spazio dai sovietici nel 1957, da cui mutua il nome, ndr] e superare barriere. Antonio è stato un regista coraggiosissimo, ero appena nata, si è caricato di una missione molto complicata, seguire i miei blitz, dover lavorare sulle riprese così come venivano, perché non si potevano certo ripetere, avere a che fare con un personaggio anonimo, in piena pandemia: tutto ciò non è stato facile. Il film comunque non mi distrarrà dalla mia attività principale, continuerò con i miei messaggi sulla mia carta attaccata sui muri nella speranza che faccia da eco a quelle voci che non hanno voce, come i migranti. Andare a raccoglierle e portarle in giro in Italia, in Europa, far sentire la loro testimonianza è tanta roba. Vederli ieri per la prima volta sul grande schermo, con tanta gente, mi ha fatto commuovere.
Un poster come quello di Regeni e Zaki, affisso proprio accanto all’ingresso dell’ambasciata egiziana (e subito rimosso) o come quello esposto all’Esquilino a Roma, dedicato a Sonia, la ristoratrice cinese che, come la sua comunità, fu oggetto di razzismo all’inizio della diffusione del Covid-19 (#JeNeSuisPasUnVirus), fanno notizia e aprono dibattiti probabilmente più di articoli e, forse, cambiano la cose più di tanti altri mezzi…
Non penso che attaccando un poster si riesca a cambiare le cose più di tanto. Credo però che il poster riassuma in una immagine tutta una serie di concetti e di messaggi come fosse un inciampo visivo, diventa poi mediatico e mainstream grazie alla stampa e ritengo che ci sia un rapporto molto stretto tra la notizia e l’immagine, molto spesso noto che negli articoli collaborano parole e immagini. La sensazione di impotenza, però, è qualcosa che si prova spesso, è facile dare un boost al mainstream sulla pandemia, su come sarà questo governo, sulle sorti di Zaki e il processo per l’omicidio Regeni, più difficile è far salire di livello nella stampa e nel dibattito. Si fa luce e se ne parla e ciò può avere come effetto smuovere coscienze da qui a dire che un pezzo di carta possa cambiare il corso degli eventi…beh, magari, ci sono miliardi di cose che vorrei cambiare.
Antonio, non deve essere stato un film facile, chiamate all’ultimo minuto, dialoghi con una attrice protagonista che, perlomeno all’inizio, non vedevi in faccia, blitz notturni… che regia è stata?
Il progetto è cambiato molto da come lo avevamo concepito all’inizio. L’idea era di fare un semplice documentario, più convenzionale, sull’arte. Poi ho notato la puntualità della storia che si faceva in quel momento: era scoppiata la pandemia, Laika cominciava a ottenere un successo grandioso: sul dibattito Zaki e Regeni, ad esempio, ha dato eco a quel fatto e mettere insieme i due personaggi è stata una scelta mediatica molto efficace oltre che originale. Mi è sembrata l’occasione buona per porre un riflettore su tematiche e questioni che i media non mettono in primo piano. “Un muro non vale un altro” ripete sempre Laika e credo sia molto giusto: andare con lei a cercare il muro adeguato in Bosnia, in un momento in cui il mondo, l’Europa, parlavano solo di pandemia, e accendere una luce su quel buio che vivono decine di migliaia di migranti, mi è sembrato molto attuale e opportuno.
Ma Laika, per un regista, non può essere l’eroina perfetta per narrare storie?
Quando mi sono approcciato al suo lavoro e alla persona, con la sua maschera, la parrucca, la voce alterata, ho scoperto un personaggio dietro l‘artista, il personaggio stesso è una performance artistica. Lo stile di rappresentazione, il modo di mettere in scena sono già un film in un certo senso. Ho voluto rispettare al massimo lo stile di rappresentazione, direi la varietà di stili che utilizza con le opere e raccontare, così, il personaggio Laika. Nel film ci sono omaggi e citazioni: ad Arancia meccanica, o a cinecomics con supereroi che guardano le città – il suo sguardo disincantato su Roma li ricorda –, lei che attraversa la città deserta per il lockdown con il monopattino, ricorda Nanni Moretti che gira per Roma con la Vespa in Caro Diario. Diciamo che ho giocato con Laika e lei è stata al gioco. Quando siamo andati nei Balcani, invece, c’è stato un cambio di rotta estetico e di messa in scena perché anche Laika ha avuto un mutamento netto. Siamo passati dalla narrazione alla pura denuncia.
Torniamo al muro. Nel novembre del 1989, tutto il mondo celebrò la caduta di quello di Berlino e, con essa, la deflagrazione simbolica di un pianeta diviso in blocchi, separato, ingiusto. Esattamente 33 anni dopo, scopriamo che proprio nel cuore dell’Europa, nel frattempo, i muri si sono moltiplicati, le recinzioni, gli steccati, le barriere sono sorte come funghi, tutti in funzione anti migranti. Tu hai visitato alcuni di questi confini e visto con i tuoi occhi alcune di queste barriere: quegli oltre 1000 km di muro, anche in area Schengen, che tipo di Europa stanno recintando?
L: Quanto sta accadendo nel nostro Continente è realmente incredibile. Prendiamo ad esempio la Polonia, quando ci sono andata – era da poco iniziata la guerra tra Russia e Ucraina –, i profughi ucraini ricevevano un’accoglienza a 5 stelle. Poco più a Nord, c’era un lembo di terra, compreso tra muri e recinzioni, dove c’erano tante persone in un drammatico limbo fatto di violenza e torture. Pensiamo alle enclave spagnole, dove si è consumato e continua a consumarsi un crimine contro l’umanità di cui ci siamo dimenticati. Ci sono muri e muri, i miei non dividono, non sono muri divisivi, non ghettizzano ma cercano di unire, di tenere unita la specie umana. Il muro ci chiama a trasformarlo, ad aprire varchi e su ciò che resta mettiamo arte.
A: Sul concetto del muro abbiamo ragionato tanto, abbiamo pensato di inserire i muri del mondo, Berlino, il muro come opera d’arte, volevamo ragionare sul concetto del muro che diventa contatto attraverso l’arte. È bello abbattere un muro rendendolo una tela. Alla fine il progetto è cambiato, ma l’idea di fondo è rimasta, e nel film ci sono spesso immagini di muri. I muri ti chiamano; a un certo punto Laika, e io con lei, ha sentito la necessità di andare a documentare il muro in Bosnia. I muri sono sempre una possibilità di espressione, troppo vuoti. Di tele, nella nostra città, ce ne sono tante ma sono vuote perché non abbiamo coraggio.
Per concludere, Laika, da dove viene questa passione per la politica che si intreccia indissolubilmente nella tua esperienza, con l’arte? E, al termine, vuoi spiegarci la tua scelta di totale anonimato?
La mia coscienza non è solo leggere, informarsi di politica e geopolitica, non è mai stata una esperienza solo teorica. È qualcosa che ho sempre portato avanti prima che Laika esistesse, mi sono occupata di diritti umani e sociali, del lavoro. La scelta dell’anonimato è per tenere separate le mie due vite. Laika ha invaso molto, ma non completamente, sono due lati di me, la maschera è una parte di me che a volte prende il sopravvento, la maschera serve per preservare la vita di tutti i giorni. Forse dovreste provarla, ti permette di essere più diretta, irriverente, abbatte il nemico più grande che a volte è me stessa, il nemico a volte più duro da sconfiggere. È essenziale perché il poster deve essere più diretto possibile. Il volto coperto dalla maschera che ho scelto, iconica per quanto neutra, ti dà l’agibilità giusta. Ma c’è una cosa che tengo a sottolineare: ai profughi in Bosnia, ho fatto vedere il mio volto, la maschera non avrebbe giovato alla missione e, soprattutto, con i migranti sono senza maschera.
Ph. Life is (not) a game © Festa del Cinema di Roma 2022
Luca Attanasio
Giornalista e scrittore