Rosarno Film festival. Il cinema che parla di lavoro e diritti dei braccianti - Confronti
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Rosarno Film festival. Il cinema che parla di lavoro e diritti dei braccianti

by redazione

di Francesco Piobbichi, operatore sociale e Ibrahim Diabate, mediatore culturale.

(intervista a cura di Valeria Brucoli)

Al via la prima edizione del Rosarno film festival “Fuori dal Ghetto”, che il 14 e il 15 vedrà la proiezione di una serie di cortometraggi incentrati sul tema del lavoro e dello sfruttamento, ma anche della migrazione e della tutela dei diritti dei lavoratori della Piana di Gioia Tauro. Francesco Piobbichi e Ibrahim Diabate hanno raccontato il Festival a Confronti.

Si inaugura quest’anno il Rosarno film festival, che mette al centro il tema del lavoro, dello sfruttamento e dei diritti. Come è nata l’idea per la realizzazione di questo Festival? 

P. L’idea è nata dal fatto che avevamo la necessità di aprire una riflessione su una narrazione “pornografica” della migrazione. A Lampedusa abbiamo visto spesso una rappresentazione pornografica del dolore, così come a Rosarno abbiamo visto un racconto simile dello sfruttamento, perché i media che arrivano qui filmano i ragazzi, ma non li ascoltano. Da qui ne deriva una mancanza di ascolto su questo tema. Per questo abbiamo provato a ribaltare i significati mettendo al centro non più l’ “oggetto migrante” ma il “soggetto migrante”, attraverso una lente diversa dalla retorica che si registra sulla frontiera. Abbiamo pertanto provato ad aprire una riflessione sul concetto del lavoro a partire da un territorio da cui da sempre si emigra, infatti ci sono tantissimi giovani calabresi che vanno via da questa terra, perché non c’è lavoro o quello che c’è è di bassa qualità, e dove invece arrivano i migranti. In questo senso il tema del lavoro vuole parlare a tutti e introdurre il tema del riscatto per questi territori.

D. I braccianti che lavorano in questi territori hanno bisogno di vedere riconosciuti i propri diritti. Parlare di dignità vuol dire parlare di restituzione dei diritti. Molti di loro sono facili prede dei caporali perché non avendo il permesso di soggiorno e non sapendo dove altro andare sono più ricattabili, e il proprietario del campo o il caporale approfitta di questa situazione di disagio per sfruttarli. Il Rosarno Film Festival vuole comunicare a tutti che siamo sulla stessa barca, e che non sono solo i migranti ad essere sfruttati ma anche gli italiani. Per questo dobbiamo darci la mano e farci forza insieme per vincere una battaglia che non si sa quando finirà. Finché non vedremo la vittoria finale saremo sempre in prima linea per combattere e avere dei risultati soddisfacenti. 

Il titolo del Festival è “Fuori dal ghetto”. In che modo il Festival si propone di portare il cinema in luoghi non convenzionali?

D. La tendopoli di San Ferdinando qui a Rosarno è un ghetto perché dopo essere stata costruita è stata abbandonata. Luoghi come questi vengono spesso autogestiti. Quindi fare un Festival in questi luoghi serve a mostrare che non sono completamente abbandonati e che sono abitati da esseri umani. Questo è il senso della proiezione dei film in questi luoghi. Rosarno è una metafora di situazioni simili a cui si assiste in diverse parti d’Europa, per questo la scelta di portare un festival qui e di far sì che siano le persone sfruttate a giudicare i film in cui loro stesse sono rappresentate come vittime, gli conferirà una prospettiva completamente diversa. Abbiamo scelto luoghi non convenzionali anche per comunicare che qualunque posto può essere adatto alla proiezione di un film, perché quello che conta, ancora più del luogo, è restituire la dignità alle persone. Una persona senza dignità è come un albero senza radici.

P. Quello che è importante per noi è superare la logica e la retorica che accompagna il tema del lavoro nella Piana di Gioia Tauro. Quindi portare il cinema “fuori dal ghetto” vuol dire soprattutto restituire la possibilità alla persone che sono sfruttate di avere uno spazio per la loro visione. I lavoratori migranti sono sempre filmati ma non sono mai ascoltati fino in fondo. È facile costruire su di loro una retorica della vulnerabilità e inserirli in tutta una serie di meccanismi che portano a una ghettizzazione della forza lavoro. Questi lavoratori vengono sin troppo spesso confinati in luoghi lontani dalle città e inseriti nella logica dell’emergenza, invece che in quella del diritto. Con questo Festival vogliamo comunicare che è possibile sviluppare una forma di accoglienza basata sulla dignità del lavoratore e non sul concetto di assistenza caritatevole, che secondo noi porta a una degradazione del diritto. Non è tollerabile infatti che la grande distribuzione degli agrumi e dei prodotti ortofrutticoli attiva in questi territori non sia chiamata dal governo a partecipare alle spese di accoglienza per questi lavoratori. 

Il Festival vedrà una giuria composta da braccianti, che per la prima volta non saranno i protagonisti della narrazione dello sfruttamento ma gli spettatori. Perché questa scelta?

D. Abbiamo fatto questa scelta per cambiare lo sguardo che le persone hanno sull’immigrazione. Vogliamo cambiare la prospettiva che vede i migranti come vittime degli sfruttatori. Inoltre, giudicare queste opere permette ai migranti di prendere consapevolezza di alcune dinamiche, cambiarle e andare avanti nella lotta per i diritti, non solo per gli stranieri ma per le frange più deboli della popolazione che sono sfruttate dal sistema. Dobbiamo mettere al centro il valore dell’essere umano perché l’umanità e la dignità non possono essere disgiunte. I braccianti vivono in condizioni igienico-sanitarie terribili e questo non è dignitoso per chi lavora, che invece dovrebbe avere la possibilità di affittare una casa e avere gli stessi diritti degli altri lavoratori. Chi consuma la frutta spesso ignora che dietro ci sono migliaia di persone, non solo migranti, ma anche italiani, che soffrono e vengono sfruttati, ed è giusto raccontare la loro storia.

P. Lo sforzo che abbiamo fatto e stiamo facendo è quello di decolonizzare il meccanismo della comunicazione e dell’accoglienza. Abbiamo deciso di fare un passo in questa direzione, creando una giuria di braccianti che guarda opere che parlano di braccianti. Quindi i soggetti più vulnerabili della catena del lavoro non sono più semplici spettatori ma giudici, che osservano la dimensione del lavoro in Italia attraverso dei film che non parlano solo dello sfruttamento dei migranti, ma di tutti i lavoratori. Questo per sottolineare che, nonostante si parli tanto di integrazione, in Italia il lavoro non integra, al contrario disintegra le persone, e non solo i migranti. Forse questo sguardo può permettere anche a noi di fare una riflessione più ampia sulla nostra società.

La Calabria è terra di emigrazione e di immigrazione. Da quale prospettiva il Festival affronta il tema della migrazione?

D. I giovani calabresi oggi sono delusi dalla situazione sociale e dalla mancanza di lavoro, quindi si vedono costretti ad abbandonare la loro terra per poter sopravvivere altrove. Se da una parte la gioventù calabrese parte, dall’altra ci sono i migranti che arrivano, e che sono disposti ad accettare condizioni lavorative poco dignitose per sopravvivere e mantenere le famiglie rimaste nella terra d’origine, spesso in condizioni di estrema povertà, vittime di guerre, calamità naturali e politiche imperialiste devastanti. 

P. Partendo dal concetto di lavoro, questo Festival, permette di riconfigurare l’immagine che abbiamo costruito nel tempo di  “noi” e degli “altri”, impersonati dai migranti. La Calabria diventa in questo senso una metafora della migrazione. È evidente durante le vacanze estive dove qui si incontrano i giovani che tornano a trovare le proprie famiglie e i giovani che arrivano a lavorare perché inizia la stagione. Questa terra, più di altre, apre una riflessione rispetto al fatto che siamo un popolo di emigrati che si sono scordati il proprio passato e non vedono il proprio presente incarnato in centinaia di migliaia di giovani che sono costretti ad abbandonare la propria terra e la propria famiglia per trovare lavoro in altre parti d’Italia o del mondo. Con questo Festival vogliamo aprire questo sguardo, e vedere una possibilità di riscatto, sia per i braccianti che per i giovani di queste terre che sono costretti a migrare.


In che modo il cinema può dare voce alle minoranze e aiutare gli spettatori a guardare la realtà attraverso una lente diversa da quella alla quale sono abituati?

P. Un giovane africano che vuole fare un film in Italia è costretto sempre a passare per associazioni già strutturate, sia per problemi legati al permesso di soggiorno che per acquisire dei finanziamenti, quindi è portato ad assumere lo sguardo degli “autoctoni”. Se il cinema vuole avere uno sguardo alternativo, deve garantire ai soggetti più vulnerabili la possibilità di fare film senza dover passare da associazioni terze. Si parla sempre di frontiera e di diritti dei migranti, ma non si parla mai di cosa spinge queste persone ad andare via dai propri Paesi. Sembra quasi che il cinema italiano abbia parlato per tanto tempo solo del confine ma mai delle ragioni che costringono a partire, invece questo sarebbe possibile offrendo ai soggetti che fino ad ora non hanno avuto la possibilità di farlo la possibilità di raccontare il loro punto di vista.

D. L’immagine aggiunge senso alle parole e se venisse da un migrante sarebbe ancora più potente. Per questo l’obiettivo di questo Festival è dare la possibilità di raccontare anche ai migranti, con le loro parole e il loro sguardo, il fenomeno dell’immigrazione. E la speranza è che il Rosarno Film Festival sia l’occasione per aprire un dialogo e una collaborazione tra lavoratori migranti e autoctoni, e con l’intera società per superare una situazione che priva molti esseri umani non solo dei diritti, ma anche della dignità. 

Scopri QUI il programma completo.

Picture of Francesco Piobbichi e Ibrahim Diabate

Francesco Piobbichi e Ibrahim Diabate

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