Il racconto della migrazione di Andrea Segre - Confronti
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Il racconto della migrazione di Andrea Segre

by Andrea Segre

di Andrea Segre. Regista

Intervista a cura di Valeria Brucoli. Redazione Confronti.

L’ordine delle cose, il film realizzato da Andrea Segre nel 2017, ha portato all’attenzione del pubblico il fenomeno migratorio e risvegliato nella società civile il desiderio di elaborare proposte concrete e innovative per cambiare le politiche migratorie e costruire una società più aperta e solidale. Da questo desiderio è nato il Forum per cambiare l’ordine delle cose, promotore dell’incontro Flussi di energia  – Come liberare flussi di migrazione regolare, che si terrà oggi 9 novembre dalle 14 alle 19, presso la Sala della Protomoteca dei Musei Capitolini a Roma. Per l’occasione abbiamo intervistato il regista Andrea Segre, autore di numerosi lungometraggi come  Io sono Li (2011), La prima neve (2013), L’ordine delle cose (2017), Welcome Venice (2021), e documentari tra cui Come un uomo sulla terra, co-diretto da Dagmawi Yimer (2008), Magari le cose cambiano (2009), Il sangue verde (2010), Mare chiuso, co-diretto da Stefano Liberti (2012).

Dopo i lungometraggi Io sono Li, La prima neve, L’ordine delle cose, con Trieste è Bella di Notte torna a parlare di migrazione, in particolare della rotta balcanica. Come è nato questo progetto?

Il film sarà pronto a gennaio 2023 e oggi ne sarà presentato un estratto nel suo contesto fondativo, ovvero nell’incontro Flussi di energia  – Come liberare flussi di migrazione regolare, organizzato dal Forum per cambiare l’ordine delle cose. Mi è stato proposto di lavorare su quella frontiera proprio dalle organizzazioni che fanno parte del Forum, in particolare Ics Trieste e RiVolti ai Balcani, che un anno fa mi hanno chiesto di approfondire questa rotta insieme a Stefano Collizzolli e Matteo Calore. L’obiettivo era raccogliere e sedimentare le testimonianze di ciò che è successo tra il 2020 e il 2021 al confine, cioè le operazioni di respingimento informale, che sono state già raccontate da altri, ma mai in profondità da chi le ha vissute. Il film sarà quindi costituito da una serie di interviste-memorie e da immagini realizzate in Bosnia, che raccontano l’esperienza chi deve ancora provare a fare il viaggio. Il focus è su cosa hanno vissuto e su cosa possono raccontare le persone che hanno subito i respingimenti. 

In molte delle sue opere si concentra sulla narrazione della migrazione, dal viaggio al processo di integrazione sul territorio. Quanto è urgente raccontare queste storie oggi?

Continua ad essere una questione urgente. Questo è frustrante e motivante allo stesso tempo. Perché ogni volta che ci troviamo davanti a eventi tragici e a lesioni dei diritti ci interroghiamo su quanto sia giusto e necessario continuare a fare tutto ciò, ma non c’è alternativa. È chiaro che la tendenza istintiva storico-politica, forse anche umana, sia quella di chiudere e respingere, restringere e ledere i diritti degli altri per difendere i propri. Questa non è una tendenza che l’umanità ha scoperto negli ultimi anni, ma diventa incredibilmente evidente nel momento in cui chi ha quel diritto leso si presenta fisicamente a chiederlo. Questo è quello che sta succedendo in maniera più eclatante in questa fase storica dell’umanità. Non era pensabile fino a poco tempo fa che delle persone attraversassero migliaia di chilometri a piedi per arrivare a chiedere un diritto. Nessuno immaginava che qualcuno potesse partire dal Gambia o dal Pakistan e arrivare in Italia senza avere il diritto di farlo. Invece a un certo punto la continua lesione di questo diritto ha fatto arrivare fino a questo punto di follia e di esigenza. Da qui si sta scatenando una tensione che durerà ancora per decenni. C’è chi la utilizza per accumulare potere, chi la analizza, chi ci sta a fianco e chi la racconta. Questo è quello che stiamo cercando di fare con Zalab da circa vent’anni e sicuramente continueremo a fare in futuro. Il problema è trovare la forza di continuarlo a fare. Ho una grandissima stima, quasi una devozione, per tutti gli operatori che lavorano nel Forum per cambiare l’ordine delle cose e in tutte le organizzazioni che ne fanno parte. Sono degli ostinati e quando gli si chiede perché stanno ancora lottando, rispondono che non potrebbero smettere di farlo. 

Anche perché le forze politiche continuano a innalzare muri.

C’è una parte della politica che innalza muri, e un’altra che cerca di toglierli, ma si tratta di reazioni rispetto al fatto che ci sono persone che non possono viaggiare liberamente e cercano di prendersi questo diritto. Incredibilmente l’essere umano mette a rischio la sua stessa incolumità cercando di prendersi un diritto che è importante quasi quanto mangiare e bere. Proviamo a convincere le persone che il diritto di viaggiare sia inferiore ad altri diritti, proponendo loro di restare a casa, ma non è così. Quello che sta accadendo è che le persone a cui questo diritto è negato stanno tentando di prenderselo, a costo della vita. In questo senso sia l’azione di spendere miliardi per costruire muri, che quella di ostinarsi a cercare di abbatterli per permettere alle persone di attraversarli, non sono altro che conseguenze della lesione di un diritto e della presa di parola che ne deriva. Se non ci fosse questa presa di parola con i corpi e se tutti rimanessero “a casa loro”, non esisterebbero i miei film, né i respingimenti delle forze politiche, così come non esisterebbero le organizzazioni del Forum. Ed è questo che mettiamo costantemente al centro della nostra riflessione e proviamo a portare in superficie. Perché tutta la superficie mediatica e politica si occupa delle conseguenze, ovvero dei tentativi di respingimento e delle persone che si indignano, e questo continuerà fino a che non sarà riconosciuto quel diritto. 

In che modo il cinema e l’arte in generale possono cambiare “l’ordine delle cose”?

L’unico modo per farlo è mettersi a disposizione per ascoltare e allargare le voci di chi può davvero raccontare cosa succede. Credo che il racconto abbia la necessità di partire dall’ascolto, poi l’arte può trasformare quell’ascolto in una provocazione, o in un’azione che possa attirare l’attenzione e aiutare a cambiare i punti di vista. Poi tutto questo va messo in relazione ad altre forme di azione che sono altrettanto importanti. 

Come si pone il regista-narratore rispetto al racconto della migrazione?

È importante che il regista abbia il tempo e l’attenzione per superare la superficie delle cose, quindi di non fermarsi all’impatto immediato che hanno fotografi, giornalisti, e tutti coloro che sono impegnati sul fronte dell’attualità. Il narratore dovrebbe superare quel tempo ridotto, provare ad andare in un tempo più lungo e restituire un racconto che sia costantemente significativo, anche al di là del tempo in cui accade, e continui a dire qualcosa dopo l’attualità. Quello che un regista dovrebbe fare è trascorrere più tempo possibile ad ascoltare gli eventi, a capire i luoghi, gli spazi e le relazioni, in modo tale che ci sia qualcosa di più archetipico da raccontare, oltre a ciò che è necessario denunciare e raccontare dell’oggi, che invece è il lavoro del giornalista. Ci sono dinamiche nella migrazione che rimangono costanti e bisogna provare a raccontarle dando un ruolo nel racconto a chi ascolta e vive quest’esperienza. La maggior parte dei miei spettatori non sono migranti e non sanno cosa siano i luoghi della migrazione perché la loro vita non li tocca. È necessario pertanto sradicare queste persone da una posizione passiva, che sia di odio o di pietà, e provare a coinvolgerle in un ascolto più ampio. Se uno spettatore di cinema, di teatro o di arte, non è coinvolto e non si sente parte della riflessione, porta il racconto a perdersi. Oltretutto, convocare lo spettatore soltanto sull’urgenza denigratoria o compassionevole è limitante, sebbene possa rendere molto politicamente. 

Ph. harsh patel © via Unsplash

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