Nuovi modelli di maschilità per il ripudio della violenza contro le donne - Confronti
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Nuovi modelli di maschilità per il ripudio della violenza contro le donne

by Thomas Casadei

di Thomas Casadei. Professore ordinario di Filosofia del diritto, presso il Dip. di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

La violenza maschile contro le donne riguarda tutte le fasce sociali, tutte le culture, e si annida nei contesti più diversi, proprio perché ha radici profondissime. Il problema sono ancora i “modelli” di maschilità, e la persistenza di un maschile per il quale l’uso della violenza è, comunque, nel novero dei comportamenti possibili.

Secondo le indagini dell’Istituto nazionale di statistica, in Italia, le donne vittime di omicidio volontario nell’anno 2020 sono state 116. Nel 2019 erano state 111. Tra i 24 Paesi dell’Unione europea per i quali si hanno a disposizione dati recenti, si riscontrano valori inferiori solo nel caso di Grecia e Irlanda. Si attendono a breve, in prossimità del 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, i dati relativi all’anno 2021.

In base alle statistiche fornite dalla Direzione generale di statistica e analisi organizzativa presso il ministero della Giustizia, nell’85% dei 150 casi rilevati mediamente per anno dal 2012, «le vittime sono state private della vita in quanto donne». Si tratta di “femminicidi”, la forma più estrema delle violenze maschili contro le donne. È del resto purtroppo ancora radicata una concezione proprietaria della donna, qualcosa che dovrebbe essere fuori dal tempo presente, consegnato alle peggiori tradizioni patriarcali.

LA PERSISTENZA DEL PATRIARCATO

La violenza maschile contro le donne ha come presupposto le discriminazioni basate sul genere, l’insieme di ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che continuano a permeare la società.

Il fatto che la violenza non sia bandita ma troppo spesso relativizzata quando non addirittura giustificata o motivata, qualora riguardi i comportamenti degli uomini verso le donne, spiega perché a essere autori di violenza siano non solo compagni o mariti ma anche figli e fratelli.

Il problema sono ancora i “modelli” di maschilità, e la persistenza di un maschile per il quale l’uso della violenza è, comunque, nel novero dei comportamenti possibili. Sono trascorsi appena quarant’anni dall’abolizione del delitto d’onore che all’articolo 587 del Codice penale stabiliva una circostanza attenuante nei confronti del coniuge, del padre o del fratello che per causa d’onore, appunto, cagionassero la morte della moglie, della figlia o della sorella. Di recente, Paola Di Nicola Travaglini – consulente giuridico della Commissione sul femminicidio e la violenza di genere presso il Senato della Repubblica e consigliere di Cassazione, nonché autrice del volume La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio (Harper Collins, 2018) – si è pronunciata pubblicamente sulla sentenza dei giudici della Corte d’Appello di Palermo che ha cancellato le aggravanti riducendo dall’ergastolo alla pena di 19 anni la pena di un uomo che tre anni fa ha ucciso a coltellate la donna con cui aveva una relazione e da cui aspettava un figlio. Di Nicola Travaglini ha affermato come i giudici «debbano liberarsi dalle scorie del delitto d’onore» mutando un orientamento purtroppo ricorrente nei 220 procedimenti penali per femminicidio esaminati dalla Commissione parlamentare.

La violenza maschile contro le donne riguarda tutte le fasce sociali, tutte le culture, e si annida nei contesti più diversi, proprio perché ha radici profondissime. Le riflessioni femministe contemporanee, con la loro rinnovata attenzione per la violenza di genere, stanno stimolando nuove ricerche storiche che indagano tale violenza intesa – secondo la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne dell’Onu del 1993 e la Convenzione di Istanbul del 2011 – non solo come violenza sessuale ma anche come espressione di asimmetrici rapporti di potere e di mezzi per mantenerli.

importante saper nominare “violenza” ogni condotta che comporti una violazione della libertà di autodeterminazione, del consenso, delle possibilità di vita di una donna. Occorre anche ripensare i modelli, le forme di relazione e promuovere, al contempo, azioni di prevenzione (a partire dai contesti educativi e formativi, nonché associativi) e di contrasto a certi stereotipi.

In tale direzione, sono importanti i linguaggi, il discorso pubblico, quanto viene rappresentato dai media e non meno le forme di attenzione e vigilanza sociale. È decisivo comprendere quanto le parole possano “ferire” e quanto gli “assalti verbali” possano preparare e accompagnare gli atti di violenza fisica e, inoltre, quanto ciò valga per ogni tipo di linguaggio violento e aggressivo: sessista, razzista, omofobo.

Assumono così rilievo alcuni oggetti sui quali esercitare una prospettiva critica di genere: testi narrativi, film, trasmissioni televisive, blog e discorsi in rete. I mondi dello sport, della musica e dello spettacolo, dell’informazione e dei media possono parimenti giocare un ruolo chiave nel mettere al bando e nel delegittimare ogni forma di violenza che abbia come bersaglio le donne, e più in generale ogni essere umano.

LA VIOLENZA ASSISTITA INTRA-FAMILIARE

Nelle famiglie in cui si manifesta la violenza che può portare anche al femminicidio ci sono spesso figli e figlie. Questo aspetto costituisce una tragedia nella tragedia. La violenza assistita intra-familiare è una delle forme di violenza domestica. I bambini e le bambine possono essere spettatori di diversi tipi di violenza: fisica, sessuale, psicologica e verbale che viene agita nei confronti dei componenti della famiglia, di solito la madre. La violenza assistita può causare in loro danni indelebili che si ripercuotono sia a livello psicologico sia a livello comportamentale: i bambini che hanno assistito a episodi di violenza nel contesto familiare rischiano di sviluppare comportamenti aggressivi, considerando il ricorso alla violenza come un atteggiamento ammissibile nella vita di relazione.

Su questo versante occorrerebbe attivare oculate forme di prevenzione. È stato, opportunamente, rilevato come la protezione dei minori, vittime di violenza assistita intersechi le competenze di una pluralità di autorità pubbliche, amministrative e giudiziarie, civili e penali, i cui interventi non sempre riescono a coordinarsi in modo efficiente. Da questo punto di vista, sulla base di ricerche e studi ormai consolidati, sarebbe indispensabile un costante aggiornamento professionale dei professionisti e delle professioniste dell’aiuto, nonché una sensibilizzazione generalizzata della cittadinanza.

UNA “FRAGILITÀ” MASCHILE?

Spesso la violenza sulla donna è attribuita a una sostanziale “fragilità” maschile, a una incapacità di prendere atto di cambiamenti e/o evoluzioni o rifiuti della propria partner, moglie, fidanzata, compagna. Si tratta di un approccio fuorviante poiché prelude a forme di giustificazione e relativizzazione. Il ricorso alla violenza, invece, è bene ribadirlo, deve essere bandito da ogni comportamento e sanzionato sin dalle primissime manifestazioni o avvisaglie.

Non è sostenibile l’idea di una “fragilità maschile”: tutti gli esseri umani, tutte le persone sono vulnerabili, come tali possono vivere fasi di particolare fragilità e di disagio, conoscere difficoltà impreviste. Bisogna evitare che queste si tramutino in rabbia e aggressività verso gli altri, e occorre sapersi affidare al dialogo, al confronto e, qualora necessario, a figure che possano fornire un supporto per affrontare le difficoltà che appaiono più gravi.

In questo senso operano i Centri per uomini maltrattanti, ormai istituiti in vari contesti territoriali ma non supportati da un’adeguata campagna di informazione: analisi approfondite su queste realtà sono condotte in Italia dall’associazione LeNove e dal Progetto Viva, realizzato dall’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Cnr in collaborazione con il dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio. Si tratta di luoghi che, invece, vanno fatti conoscere, non rappresentando una minorazione dell’immagine maschile, ma anzi un’opportunità di riscatto e di cambiamento.

Occorre guardare alle evoluzioni nella direzione di una parità tra uomini e donne, in tutti i contesti: essa va intesa come una conquista fondamentale che, come tale, deve essere conosciuta, discussa e “studiata” negli ambiti della formazione, ma anche dell’informazione.

“Parità” significa anche una ridefinizione dei poteri nella società, una maggiore libertà nelle scelte. Ciò rappresenta un aspetto fondamentale cui alcuni uomini faticano a rassegnarsi, perché ancorati ad antichi schemi imperniati sulla subordinazione, l’asservimento, lo sfruttamento, l’oppressione, tutte pratiche determinate dalla “disparità”, da un’insaziabile fama di discriminazione.

Di certo la reazione a questo stato di cose non può essere il ricorso alla violenza. Gli uomini, in primo luogo, devono essere protagonisti di questo rifiuto ed essere attivi nel prevenirlo, nel vigilare, nel non essere solidali o comprensivi con chi vi ricorre, anche sul piano dei comportamenti pubblici, sul piano verbale, sui social network: questi ultimi sono luoghi in cui spesso la “lama della rete” diventa crudele, creando danni profondi e a volte irreparabili (in proposito, si veda, a titolo esemplificativo, S. Vantin, La lama della rete. Forme della violenza contro le donne sul web, in “Rivista italiana di informatica e diritto”, 2, 2021, pp. 27-33).

LEGISLAZIONE E RUOLO DELLE ISTITUZIONI

I percorsi verso l’eguaglianza di genere, verso la parità, non possono essere tracciati in poche battute, ma certamente, decisiva è una costante interazione tra i soggetti istituzionali e quelli culturali e formativi mediante progetti e iniziative comuni che abbiano come caratteristica quella di svilupparsi nel tempo e di radicarsi nei diversi contesti sociali. Non solo, dunque, in ambito educativo ma anche in quello informativo, associativo, sportivo e – ovviamente – nei luoghi di lavoro, ove ancora persistono odiose pratiche di discriminazione e di molestia.

Sono, per esempio, questi i presupposti e gli assi di intervento della Legge regionale dell’Emilia- Romagna n. 6 del 27 giugno 2014 (Legge quadro per la parità e contro le discriminazioni di genere): uno strumento legislativo forse meritevole di essere assunto come riferimento per una analoga legge quadro nazionale di cui si percepisce dolorosamente l’assenza. In ambito nazionale, infatti, l’orientamento è stato quello di intervenire sul fronte della repressione penale, che, tuttavia, non ha reale incidenza sulla prevenzione e certo non è un motore del cambiamento culturale. Tuttavia, la riconosciuta rilevanza penale di certi comportamenti può rappresentare una breccia in quella che un tempo era una pressoché granitica “normalizzazione” di condotte gravemente lesive della dignità, dell’integrità fisica e della libertà di autodeterminazione della donna. La Legge n. 69 del 9 agosto 2019 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere) ha introdotto il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (il cosiddetto Revenge porn), il delitto di costrizione o induzione al matrimonio, il delitto di violazione dei provvedimenti di allontana- mento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento quale deterrente per il reato di stalking. È indubbio che tali previsioni non siano “la porta per l’eguaglianza di genere,” ma tracciano certa- mente uno scenario diverso da quello in cui la donna veniva perseguita per una relazione fuori dal matrimonio, o in cui poteva essere uccisa senza che l’omicida incorresse nella pena prevista per chi privava della vita un essere umano.

Sul piano territoriale è fondamentale connettere le diverse realtà e i diversi centri impegnati nel contrasto e nella prevenzione: le Asl, i Centri Anti-violenza e i Centri per uomini maltrattanti. Sarebbe importante consolidare, come si è cominciato a fare in alcune realtà, il raccordo integrato di rete tra l’amministrazione pubblica, la questura e le prefetture dello Stato e le forze dell’Ordine attraverso attività di formazione e aggiornamento costanti. A tale scopo gioverebbe rafforzare, con opportuni finanziamenti pubblici, il ruolo delle associazioni impegnate sul territorio poiché proprio le realtà associative svolgono attività centrali sul piano della sensibilizzazione. Questi aspetti, sulla base di esperienze pilota che stanno prendendo avvio in alcune parti d’Italia, dovrebbero includere anche un’azione diretta da parte dei medici.

È da diversi anni, per esempio, che nella provincia di Foggia i medici di medicina generale, i pediatri e le pediatre svolgono una specifica formazione per essere capaci di intercettare i segni della violenza domestica su donne e bambini. Per ripudiare la violenza, in tutti i comportamenti e in tutti i contesti, serve una “grande alleanza”, le istituzioni possono e devono esserne il collante, ma la formazione e l’informazione sono ambiti altrettanto decisivi.

Ph. © Mateus Campos Felipe via Unsplash

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Thomas Casadei

Professore ordinario di Filosofia del diritto, presso il Dip. di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia

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