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Oggetti ribelli (Costa Rica)

by Nadia Angelucci

di Nadia Angelucci. Giornalista e scrittice

Objetos rebeldes di Carolina Arias Ortiz ha vinto la sezione documentari del Premio IILA- Cinema dell’Organizzazione internazionale italo-latino americana. Un film sulle complicazioni della memoria e su come si può guardare al passato, personale e storico, per scoprire che è ancora vivo.

C’è un enigma archeologico, che si trasforma in ricerca di identità, al centro del bel lungometraggio Objetos rebeldes di Carolina Arias Ortiz che ha vinto la sezione documentari del Premio IILA- Cinema dell’Organizzazione internazionale italo-latino americana, rivolto a registi latinoamericani under 40 e diretto a sostenere l’industria cinematografica latinoamericana «con l’obiettivo di valorizzarne i nuovi talenti e di incentivare la distribuzione di queste produzioni cinematografiche in Italia».

Gli Objetos rebeldes, “Oggetti ribelli” del titolo del film, sono le monumentali sfere di pietra presenti nella fitta giungla tropicale costaricana e sono gli oggetti della vita familiare della regista, due realtà che si intrecciano e finiscono per dare forma a una stessa storia.

Carolina ha lasciato la Costa Rica a 12 anni per emigrare con sua madre in Belgio ma torna per risanare la frattura della relazione con il padre prodotta da una migrazione così precoce; a pochi mesi dal suo arrivo il padre si ammala gravemente. Arrivando nel Paese in cui è nata, entra in contatto con il lavoro archeologico di Ifigenia Quintanilla.

L’archeologa sta indagando su uno dei fenomeni più famosi e misteriosi della Costa Rica: le grandi sfere di pietra disseminate nel paesaggio del Paese caraibico e i numerosi miti a esse associati.

Centinaia di globi di pietre di tutte le dimensioni, da pochi centimetri fino a più di due metri di diametro, scoperte nel 1939 nella zona del Delta del Diquís, nel Pacifico meridionale della Costa Rica, quando la multinazionale statunitense United Fruit Company ebbe una concessione terriera significativa, equivalente a quasi il 9% della superficie del Costa Rica, per piantare migliaia di ettari di piante di banane.

Mentre gli operai della società disboscavano la selva, tagliando e bruciando gli alberi, iniziarono
ad apparire le vestigia di società antiche: manufatti archeologici, tra cui gigantesche statue antropomorfe e sculture zoomorfe, tombe con sontuosi corredi funerari e le indecifrabili sfere di pietra.

Il solerte lavoro di deforestazione si scontrò con la “rivolta”, la ribellione di questi giganti di pietra immobili e disubbidienti che apparivano sotto i cingoli dei trattori inceppandone i meccanismi e obbligavano gli operai a fermarsi e a rimuoverle; in alcuni casi, per le più grandi, si procedette con cariche di dinamite.

A partire dalla loro scoperta, lo sradicamento e la dislocazione delle sfere dal loro luogo originale sono stati metodicamente incoraggiati.

I proprietari terrieri iniziarono a utilizzare queste antiche sculture come ornamenti per il proprio giardino, un simbolo del loro potere economico, politico e sociale, una rappresentazione della propria egemonia, economica e culturale, sulle civiltà che avevano costruito quelle sfere.

Come la stessa regista racconta nel voice off del documentario, le sfere raccontano di una relazione che è soprattutto una relazione di sfruttamento ed espropriazione e che si risolve in una introiezione del meccanismo coloniale, operata dalla società costaricana che si presenta
al mondo come una società bianca e pacificata; uno “sbiancamento”, reale con lo sterminio delle popolazioni native, e metaforico, con la cancellazione culturale delle proprie civiltà ancestrali.

Ed è in questa lettura, che può sembrare marginale, il nucleo politico del lungometraggio che ha il pregio di rendere politico ciò che è personale.

Da una parte la presenza delle sfere che richiama costantemente la cosmovisione di una cultura antica e rievoca la storia di espropriazione subita dal Costa Rica da parte di una compagnia bananiera arrivata nel Paese per portare un progresso centrato su un presunto sviluppo che persegue la modernità ma elimina l’identità, dall’altra le foto scolorite dell’infanzia di Carolina con il padre parlano del suo passato e le ricordano la solidità di un legame che il tempo ha travolto ma che è saldata con rimpianto agli oggetti che infatti, come dice Carolina in un passaggio del documentario, fanno male.

Un film sulle complicazioni della memoria e su come si può guardare al passato, personale e storico, per scoprire che è ancora vivo.

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Nadia Angelucci

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