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Ilva. La verità giudiziaria su quelle morti per la logica del “massimo profitto”

di Gaetano De Monte

di Gaetano De Monte. Giornalista.

Tra le 3800 pagine di motivazioni della sentenza di primo grado del maxiprocesso che chiama in causa la cattiva gestione della grande fabbrica di Taranto, il racconto dei colleghi degli operai uccisi e dei periti inchiodano i dirigenti: assenza di formazione, manutenzione delle macchine inadeguata, ma la produzione doveva continuare ad ogni costo.

 È il 28 novembre del 2012, esattamente dieci anni fa. Francesco Zaccaria sta guidando una gru all’interno del quarto sporgente del porto di Taranto, banchina in concessione all’Ilva Spa. Piove e c’è vento forte. D’improvviso, dal mare si scatena un tornado, la cabina dove si trova l’operaio si apre e Francesco precipita da un’altezza di circa 60 metri. Il suo corpo esanime viene ritrovato soltanto dopo due giorni. I medici della Asl locale che ne constatano la morte per arresto cardiorespiratorio, scrivono nel verbale che il decesso è l’esito di un trauma violento che ha provocato la fuoriuscita di materiale cerebrale ed ematico dalla teca cranica e di una frattura cervicale provocata dalla caduta del corpo dall’alto in mare insieme alla cabina di movimentazione della gru appartenente al IV sporgente di Ilva. 

Gli accertamenti condotti qualche giorno dopo l’incidente dallo Spesal, il servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro, riferiscono che l’evento è stato di straordinaria intensità e improvviso e che nessun allarme era stato dato dalle autorità preposte, Capitaneria di Porto e Protezione Civile, e che, dunque, non risultava prevedibile nessuno scenario di emergenza, di stabilimento o di reparto. Tuttavia, quel giorno al porto di Taranto l’operaio Francesco Zaccaria non era solo. Vicino a lui, nella cabina di un’altra gru, si trovavano altri due operai che riportarono entrambi lesioni. 

LA PAROLA AI TESTIMONI

Francesco Sasso era uno di loro. E ha raccontato ai magistrati di Taranto quegli istanti drammatici così: «Sentimmo un rumore, il vento fortissimo ci spostò dalla passerella con tutta la cabina, prima a lato terra, e poi andammo a sbattere contro il braccio mobile. Siamo stati sbattuti da una parte all’altra della gru per circa 50, 60 metri. La cabina si accartocciò e rimanemmo incastrati». E ancora: «dopo tre quarti d’ora di vento e acqua che entrava nella cabina, eravamo tutti insanguinati. Siamo riusciti a uscire da lì attraverso un buco che si era creato all’interno e poi a scendere le scale. Ci siamo mantenuti l’un l’altro, io e il mio collega, ma nessuno è venuto a soccorrerci». Poi, della sorte di Francesco Zaccaria, lo stesso testimone ha raccontato: «all’inizio non lo vedevo perché ce l’avevo alle mie spalle, mi sono accorto che non c’era più la sua cabina dietro di me, soltanto quando siamo riusciti a scendere». 

Simone Piergianni è l’altro operaio ascoltato dal pubblico ministero della procura di Taranto, Raffaele Graziano, nell’ottobre del 2017. Tra le lacrime, Piergianni ha ricordato: «Sentivamo dei rumori. Abbiamo pensato che era la macchina che si stesse spostando e così per istinto ho cominciato a schiacciare tutti i pulsanti, i funghi di emergenza. In realtà, era la nave che si stava spostando, perché si erano staccate le funi». E poi ha confermato il racconto già fornito dal collega: «Ho provato a dare l’allarme alla radio, ma era tutto scollegato. Subito dopo siamo stati sbalzati a terra, verso la strada. La cabina sembrava avesse un motore a benzina, perché è partita a una velocità pazzesca».

La cabina è stata lanciata lungo il braccio della gru “come una pallina all’interno di un flipper”. Ha usato questa metafora, il magistrato, spiegando la richiesta di condanna per omicidio colposo nei confronti di alcuni dirigenti dello stabilimento. Già, perché la storia della morte di Francesco Zaccaria è finita nel calderone delle accuse contro i vertici della fabbrica nel maxiprocesso davanti alla Corte d’Assise di Taranto che si è concluso in primo grado il 31 maggio dello scorso anno, e di cui sono state diffuse le motivazioni soltanto qualche giorno fa, il 29 novembre scorso. 

STORIA DI UN MAXI PROCESSO

Il procedimento penale in questione, come si ricorderà, era stato originato dal sequestro dell’area a caldo dell’ex area Ilva avvenuto il 26 luglio del 2012, perché, come scrisse allora nell’ordinanza la giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto, Patrizia Todisco: «provocava malattie e morte anche nei bambini». 

Mentre quella fabbrica, invece, ha continuato a sputare polveri e veleni in grande quantità, grazie anche a una decina di decreti legge approvati negli anni dai diversi governi che ne hanno salvaguardato la produzione. Ora, dunque, si è chiuso il primo capitolo della storia giudiziaria.   

Oltre 1400 erano le parti civili ammesse al giudizio: associazioni ambientaliste, singoli cittadini, cooperative di agricoltori, allevatori e pescatori, enti locali, organizzazioni sindacali; e una quarantina gli imputati, a vario titolo, coinvolti, tra cui il presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, e l’allora governatore regionale Nichi Vendola; e poi, assessori e funzionari della Regione Puglia e del ministero dell’Ambiente, ma, soprattutto, i vertici dirigenziali della fabbrica allora gestita dalla famiglia Riva. Per questi ultimi sono arrivate le condanne più pesanti, complessivamente, per centinaia di anni di carcere. 

LE ACCUSE

Secondo i giudici di Taranto, esisteva un’associazione a delinquere di cui facevano parte, tra gli altri: Fabio Riva, condannato a ventidue anni di reclusione, e il fratello Nicola, condannato a venti anni di carcere; Luigi Capogrosso, storico direttore dello stabilimento condannato a ventuno anni; il responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva, Girolamo Archinà, condannato ad altri ventuno anni e sei mesi. Imputati di aver commesso più delitti contro la pubblica incolumità e la pubblica amministrazione, tra cui fatti di corruzione. 

Secondo l’accusa, i dirigenti apicali individuavano le problematiche che non avrebbero consentito l’emissione di provvedimenti autorizzativi nei confronti di Ilva e concordavano di volta in volta le possibili soluzioni, cercando i soggetti (politico/istituzionale, mass media, organizzazioni sindacali, settore scientifico, clero) da contattare per risolvere tali questioni. Con il risultato finale di «aver provocato una massima attività di sversamento nell’aria/ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale, vegetale, benzo(a)pirene, diossine e metalli pesanti, cagionando eventi di malattia e morte nella popolazione residente nei quartieri vicino al siderurgico, dal 1995 al 2013, anche dopo il provvedimento di sequestro dell’area a caldo», si legge nella sentenza di primo grado. 

OMICIDIO COLPOSO

Nelle 3800 pagine di motivazioni, un intero capitolo del dispositivo è dedicato alle morti sul lavoro. Rispetto al decesso dell’operaio Francesco Zaccaria, la Corte d’Assise di Taranto ha evidenziato, sulla base delle testimonianze degli operai e sulla scorta delle consulenze dei periti, che essa è da ricondurre a tre violazioni cautelari: «la mancata valutazione dello scenario di rischio a fronte di eventi metereologici avversi, l’assenza di formazione e informazione dei lavoratori in merito ai dispositivi di sicurezza; lo stato di manutenzione assolutamente inadeguato in cui versava la gru DM5». 

Per questa morte e quella di un altro operaio, Claudio Marsella, la Corte ha condannato Adolfo Buffo, il direttore dello stabilimento, e Antonio Colucci, il dirigente responsabile dello sbarco delle materie prime e della spedizione dei prodotti, a quattro anni di reclusione. E, insieme (soltanto per quella di Francesco Zaccaria) a due anni e due mesi di reclusione il capo reparto, Giuseppe Di Noi. Perché ciascuno di loro, nelle loro rispettive attribuzioni e competenze, in sostanza, secondo i giudici: «omettevano di dotare i lavoratori di apparecchiature idonee e appropriate alle lavorazioni da svolgersi». Non solo. Nei guai giudiziari è finito anche Giovanni Raffaelli, ispettore tecnico dell’Arpa, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale, perché, incaricato della verifica della gru di banchina DM5 (quella su cui lavorava Zaccaria, la cui costruzione risale al 1974) «ha omesso di effettuare idonea verifica sull’integrità della predetta apparecchiatura». E per questo il funzionario regionale è stato condannato a due anni, con la pena sospesa, essendogli state riconosciute le attenuanti generiche. 

RISPARMIARE AD OGNI COSTO

Dal 1960 ad oggi, anno della posa della prima pietra dello stabilimento Ilva che allora era di proprietà statale e si chiamava Italsider, le morti in fabbrica sono state diverse centinaia. Durante la gestione dei Riva, dal ‘95 al 2013, sono state più una decina, in 18 anni. Ma gli incidenti mortali accadono ancora, in quella fabbrica che oggi si chiama Acciaierie d’Italia, e che è di proprietà del gruppo Arcelor Mittal con una quota dello Stato vicina al 32 per cento; e che potrebbe aumentare fino al 60, come di recente ha dichiarato Adolfo Urso, ministro del Made in Italy che, proprio domani, il 6 dicembre, incontrerà a Roma l’azienda e le parti sociali per fare il punto sulla crisi irreversibile che ha colpito l’ex Ilva di Taranto. 

In tutti i casi, la crisi del siderurgico, come è noto, è cominciata nel 2012, un anno funesto per l’acciaieria ionica, per il sequestro dell’area a caldo – si diceva – ma anche per le morti sul lavoro. Tra queste ci fu quella di Claudio Marsella, la mattina del 30 ottobre. Anche questa vicenda è finita in uno dei tronconi del maxiprocesso concluso in primo grado in Corte d’Assise, presidente Stefania d’Errico e giudice Fulvia Misserini. 

Quando accadde l’incidente in cui perse la vita Marsella, l’azienda lasciò trapelare che si sarebbe potuto trattare di un incidente dovuto anche a una distrazione causata da un malore o dall’assunzione di stupefacenti. La verità giudiziaria, però, è un’altra. Ed è quella contenuta nella sentenza che ha condannato, anche in questo caso, il direttore dello stabilimento, Adolfo Buffo, e il dirigente a capo dell’Area Logistica, Antonio Colucci, oltre al capo reparto del Mof, il movimento ferroviario, Cosimo Giovinazzi, quest’ultimo a due anni di reclusione con pena sospesa. Per tutti loro l’accusa è, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, quella di aver omesso di dotare i lavoratori di attrezzature idonee e appropriate alle lavorazioni da svolgere; oltre che di non aver vigilato sull’effettiva osservanza da parte dei lavoratori delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza sul lavoro. 

Claudio Marsella il suo ultimo giorno di vita l’ha trascorso nella zona Parco Ovest che si trova nei pressi del V sporgente del porto di Taranto. Lì vengono trasportati su via ferrata e poi stoccati in seguito coils e bramme [semilavorati siderurgici] prodotti nello stabilimento. Marsella guidava un locomotore da 110 tonnellate e il suo compito era quello di agganciarlo a un convoglio che trasportava sette vagoni carichi di bramme poi destinati al deposito. Tuttavia, «per la mancata dotazione di attrezzature efficienti e in ragione della negligente organizzazione delle lavorazioni», come hanno ricostruito i giudici di Taranto, «né il locomotore né il convoglio risultavano immobilizzati in quanto privi di dispositivi di bloccaggio delle ruote, delle cosiddette staffe ferma-carro». Così, i due veicoli a causa del mancato allineamento, non si agganciarono, e Marsella rimase schiacciato nello spazio restante tra i respingenti del locomotore e del carro. 

Per comprendere la dinamica colposa di quell’incidente, è fondamentale la perizia fornita dall’ispettore dello Spesal, Antonio Bisignano. Ma anche le parole pronunciate davanti ai giudici da parte di alcuni operai. 

Domenico Rizzo ha raccontato che quella manovra, al posto di Marsella, quel giorno sarebbe dovuta toccare a lui. Così, l’operaio ha spiegato che la procedura prevedeva l’uso delle “staffe fermacarro”, «che personalmente io non ho mai visto, perché ci arrangiavamo con dei pezzi di legno, insomma con quello che ci capitava tra le mani». E poi ha aggiunto: «era una questione di pigrizia. Sostanzialmente, non si potevano avere le staffe su ogni locomotore. Allora bisognava chiamare il nostro leader, il jolly a terra, il capoturno o il coordinatore e puntualmente si andava a finire con la battuta di turno. “Le staffe le trovi ai cavalli”. Le trovi ai cavalli, cioè non ce le portavano. Ci dicevano di arrangiarci. Con una pietra, con un pezzo di legno. Fino a che non morì Claudio, le staffe non erano a nostra disposizione». 

All’Ilva di Taranto, stabilimento siderurgico a ciclo integrale, dove si lavora giorno e notte, non si può perdere tempo, e neanche denaro. Neppure quando ciò significa rischiare la perdita di una vita umana.

Ph. ILVA – Unità produttiva di Taranto – Italy – 25 Dec. 2007 – Da una finestra di Via Regina Margherita, Taranto © mafe de baggis from Milano, Italy via Wikimedia Commons

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Gaetano De Monte

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