di Roberto Bertoni Bernardi. Giornalista.
Modesta Valenti è la donna alla quale è dedicata la via della residenza fittizia per le persone senza fissa dimora di Roma. Morta il 31 gennaio del 1983 alla stazione Termini di Roma, la sua tragica storia mette in evidenza l’indifferenza della nostra società.
Di Modesta Valenti, con ogni probabilità, se ne occuperanno in pochi. Del resto, era una persona povera, originaria di Trieste e con alle spalle un passato intriso di sofferenza, dolore, rifiuto. Una “vita di scarto”, dunque, per riprendere la definizione che ha utilizzato papa Francesco a proposito delle persone come lei. Era stata anche in un ospedale psichiatrico, dove, a quanto pare, aveva subìto trattamenti che l’avevano annientata nell’anima prim’ancora che nel corpo. Era, infine, arrivata a Roma, forse perché voleva vedere il papa, e viveva in strada, senza conoscere nessuno, chiedendo l’elemosina con rara discrezione e dignità. La sua unica famiglia era la Comunità di Sant’Egidio, per il resto non aveva nessuno e nessuno, eccetto qualche volontario e qualche persona animata da particolari valori morali, era disposto a battersi per lei. Un tempo, oltretutto, l’inverno era inverno per davvero. Faceva freddo e il gelo, per una donna che aveva superato i settanta, costretta a vivere in strada, poteva risultare fatale. Fu così che il 31 gennaio 1983 Modesta si sentì male alla stazione Termini, dove dormiva. Qualcuno chiamò i soccorsi ma il personale dell’ambulanza che giunse sul posto si rifiutò di farla salire a bordo, in quanto purtroppo aveva i pidocchi. Fu così che morì, in condizioni atroci, gettata sul ciglio di una strada.
Ebbene, la storia di Modesta, oggi diventata il simbolo di tutti i senzatetto, quasi una santa laica, è estremamente attuale. È la storia di una vita ai margini della nostra ipocrisia, nel contesto di una società violenta ed escludente, gratuitamente malvagia, sempre pronta a puntare il dito e a scagliarsi contro chi è più fragile. È una storia che dovrebbe indurci a riflettere. Quante Modesta vediamo, oggi, nelle nostre strade? Quante volte restiamo indifferenti davanti ai loro occhi, alle loro mani tese e alle loro suppliche? Certo, non possono essere i singoli a cambiare lo stato delle cose; fatto sta che la povertà sta aumentando giorno dopo giorno e contro chi vi scivola si stanno diffondendo pericolosi sentimenti di astio e quasi di ripulsa. Non è un problema solo italiano: l’America è piena di grandi città sfavillanti in cui, di notte, sui marciapiedi, un’umanità lacerata dorme ai piedi dei colossi del lusso, in cui i manichini riposano al caldo con indosso abiti da migliaia e migliaia di dollari mentre dei disperati giacciono a terra con addosso qualche abito vecchio, pochi cartoni e una coperta per ripararsi dal freddo. È di fronte a scene come queste che dovremmo interrogarci su cosa siamo diventati, su cosa sia diventata la nostra società e su quanta ingiustizia siamo ancora disposti ad accettare. La pandemia ha messo a nudo tutti i nostri limiti ma non sembra, per il momento, aver risvegliato le coscienze, per quanto si stiano diffondendo dei movimenti che chiedono un radicale cambio di passo e cominciano finalmente ad avanzare proposte in discontinuità rispetto si mantra che hanno dominato gli ultimi decenni.
E allora Modesta, umile fin dal nome, dovrebbe essere presa a esempio. L’esempio di chi non ce l’ha fatta ma non per questo merita di morire. L’esempio di una dignitosa miseria di cui non possono prendersi cura solo le associazioni di volontariato, religiose e non. L’esempio di un male che pervade la nostra comunità, che è sempre più difficile considerare tale, e sul quale siamo chiamati a riflettere. Perché le file alle mense dei poveri si stanno allungando, i bambini e le bambine in difficoltà sono troppi, al punto che alcuni di essi trovano a scuola l’unico pasto completo della giornata, e la perdita del lavoro per molti costituisce la perdita di ogni certezza e punto di riferimento. A commemorarla oggi, a Termini, c’è una targa, su cui si legge: «La città di Roma la ricorda perché nessuno muoia più abbandonato». Non è poco ed è un grande passo avanti. Il punto è che bisogna essere conseguenti, impegnarsi affinché nelle istituzioni entrino uomini e donne dotate della stessa sensibilità e fare in modo che nessuno sia lasciato indietro, meno che mai i più deboli, prendendo atto di un’evidenza: in un mondo sempre più competitivo e feroce non tutti possono farcela da soli. E la fragilità non può e non deve mai essere considerata una colpa.
Modesta sta lì, con la sua vicenda straziante, a ricordarci, quarant’anni dopo, quanti valori abbiamo perso, quanti princìpi abbiamo calpestato e quanta indecenza siamo ormai disposti a tollerare. Sta lì come coscienza critica di chi non vuole arrendersi. Sta lì col suo garbo e la sua gentilezza di povera, di sconfitta, di essere marginale che chiedeva in cambio unicamente un sorriso e, per questo, nel suo essere controcorrente, era già allora gigantesca. Sta lì, a remare in direzione ostinata e contraria, lei che non sarebbe mai voluta diventare un’eroina, lei che avrebbe solo voluto continuare a vivere, lei che abbiamo rifiutato perché sporca, lei che abbiamo, di fatto, condannato a morte, lei che, morendo in quel modo, ci ha restituito almeno l’indignazione, il coraggio di lottare, la forza di pronunciare un’espressione retorica e abusata, “mai più”, ma assolutamente necessaria di fronte all’indifferenza che regna sovrana ai nostri giorni. Un’indifferenza che sta mettendo a repentaglio il nostro vivere civile, rendendoci sempre più crudeli, sempre più soli, avvolti in una cappa di egoismo che rende impossibile ogni forma di convivenza civile. Un’indifferenza che, talvolta, uccide, come accade quando ci voltiamo dall’altra parte e non riusciamo a vedere nell’altro un fratello né a provare empatia nei suoi confronti. Del resto, se tutto dev’essere apparenza, se tutte e tutti dobbiamo essere vincenti, se non può esserci spazio per chi arranca, se bisogna calpestare chiunque pur di arrivare primi, in una corsa verso il nulla che sta massacrando il pianeta e rendendo ciascuno di noi una monade in guerra con il prossimo, se questo è il destino che è stato scelto per noi dai padroni del vapore, spiace dirlo, ma non abbiamo un futuro.
O se ce l’abbiamo, si tratta di un futuro assai triste, in cui non esistono prospettive, non esiste umanità, non esiste pietà, non esiste perdono, non esiste alcun senso di giustizia né sentimento profondo né capacità di camminare insieme. Il rischio che vada a finire così, purtroppo, c’è e se ne stanno rendendo conto soprattutto le nuove generazioni, forse perché sono le prime a subìre le conseguenze di questo degrado collettivo e a sentirsi, a ragione, private degli elementi indispensabili per condurre un’esistenza serena. Non a caso, cercano ovunque risposte che purtroppo non trovano ma quanto meno, ed è la novità più importante, non sono né apatiche né insensibili allo strazio altrui.
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Roberto Bertoni Bernardi
Giornalista