di Valentina Chabert. Dottoranda di Diritto internazionale Università La Sapienza
Da trent’anni Armenia e Azerbaijan si contendono la regione del Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena ma situata in territorio azero. Forte del suo ruolo storico di mediatore, la Chiesa tenta di perseguire la via diplomatica alla pace. Tuttavia, il ruolo geostrategico di Russia, Turchia e Stati Uniti resta inevitabile.
Etchmiadzin, culla della cristianità
È una fredda mattina di ottobre a Vagharshapat, cittadina armena di circa 57.000 abitanti della provincia di Armavir, a pochi chilometri dalla capitale Yerevan. Harutyun mi attende fuori dai cancelli del complesso religioso di Echmiadzin, e con orgoglio mi invita ad entrare in quello che è il cuore pulsante della sacralità armena. «Benvenuta nella culla della cristianità», afferma mentre mi conduce lungo il viale che affaccia sulla sede della Chiesa apostolica. Alla mia destra, la Cattedrale. «Era il 301 d.C. quando venne posta la prima pietra. Secondo la leggenda, questo è il luogo in cui Cristo, apparso a San Gregorio, colpì il suolo con un martello d’oro per indicare il punto esatto in cui sarebbe dovuta sorgere la Cattedrale, che oggi custodisce alcune delle reliquie più significative per il mondo cattolico – inclusa una scheggia dell’Arca di Noè, arenata sul vicino monte Ararat». Si respira un’aria quasi mistica, che ho ritrovato spesso durante gli incontri dei giorni precedenti. D’altronde, fu proprio l’Armenia la prima nazione ad abbracciare il cristianesimo come religione di Stato, e il rifugio nella spiritualità ha svolto un ruolo centrale nella guida di un popolo afflitto da oltre trent’anni di guerra con l’Azerbaijan.
Harutyun è uno dei membri della WCC Roundtable Foundation, che da oltre venticinque anni coopera con la Chiesa Apostolica Armena ad Echmiadzin attraverso l’istituzione di centri educativi e culturali. «Siamo costantemente in tensione per il timore di una nuova escalation militare», mi confessa dopo avermi fatto accomodare in un’ampia sala in cui sono presenti alcuni suoi collaboratori. «Dopo la guerra dei 44 giorni del settembre-novembre 2020 si sono susseguite continue violazioni del cessate il fuoco, fino ai gravissimi scontri delle scorse settimane». Secondo quanto riportato dal Ministero della Difesa armeno, nella notte del 13 settembre le forze di Baku hanno lanciato un’aggressione militare nelle aree di confine di Vardenis, Goris, Jermik, Sotk e Kapan, situate all’interno del territorio sovrano dell’Armenia, venendo meno agli impegni sottoscritti con la mediazione della Federazione Russa a seguito della Seconda Guerra del Nagorno-Karabakh, durante la quale le due repubbliche caucasiche si scontrarono per il controllo dell’enclave a maggioranza armena situato geograficamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. In quell’occasione, la WCC Rountable Foundation è accorsa in prima linea per fornire supporto e aiuto umanitario in tutte le aree colpite della Repubblica dell’Artsakh, uno Stato nella regione del Nagorno Karabakh autoproclamatosi indipendente nel 1992 e riconosciuto solo da tre Stati non appartenenti alle Nazioni Unite.
«Con l’aiuto di preti e volontari, sin dai primi giorni del conflitto la Chiesa si è mossa offrendo una risposta rapida e coordinata alla popolazione distribuendo beni di prima necessità e fornendo supporto spirituale e psicologico nelle zone di crisi». Il sostegno del Consiglio Ecumenico delle Chiese e il coordinamento con le entità governative dell’Armenia hanno contribuito ad un proficuo scambio di informazioni dal fronte, che ha permesso allo Stato di ricevere notizie certe e veritiere in merito all’entità dei danni e alle perdite di civili in Artsakh, nonché di eventuali minacce alla sicurezza abitativa e alimentare della minoranza armena.
La Chiesa mediatrice
A sottolineare la funzione primaria della Chiesa nel conflitto è D., tra i massimi esperti di religione in Armenia e docente di Biologia in numerose università della Federazione Russa e del Caucaso. I tentativi della Chiesa di mediazione nel conflitto in Nagorno-Karabakh e la sua configurazione come forum di dialogo risalgono ai primi anni Novanta, quando in concomitanza con la fine della prima guerra i Catholicos armeni si sono adoperati per un incontro con la controparte musulmana dell’Azerbaijan alla presenza del Patriarca di Mosca. «L’obiettivo della comunità religiosa armena è ancora la promozione del dialogo e della pace con Baku»– afferma D., – «ma dopo le ultime aggressioni non sono seguiti ulteriori sforzi in questo senso». «Dipende tutto dal governo» – ribatte Harutyun. «Al momento, il governo armeno non sta mostrando particolare interesse a collaborare con la Chiesa nel processo di pace. La fede religiosa non contempla una retorica aggressiva, pertanto stiamo tentando disperatamente di promuovere il dialogo».
A preoccupare sono soprattutto le violazioni dei diritti umani e le atrocità compiute nelle aree occupate dell’Artsakh, che si accompagnano ad una sistematica distruzione del patrimonio storico-culturale e religioso armeno nella regione. Me ne ha parlato a lungo Sergey Ghazaryan, Rappresentante Permanente del Nagorno-Karabakh in Armenia, che masticando un inglese primitivo il giorno precedente ha lasciato trasparire tutto il suo disappunto per l’assordante silenzio internazionale a fronte delle violenze in Artsakh. «Riceviamo quotidianamente video di mutilazioni e discriminazioni nei confronti dei nostri concittadini. Prima di entrare a scuola, i bambini vengono disposti su lunghe file ed incentivati ad additare gli armeni come nemici. Tra un ventennio, queste future generazioni si scaglieranno contro di noi con un odio profondamente radicato che non aiuterà la costruzione di una pace duratura tra i nostri popoli». Nella sala bianca e vuota della Rappresentanza, il mio sguardo cade su due piccoli quadri dipinti a mano. «É la cattedrale di Ghazanchetsots a Shushi» – mi dice Nazie, funzionaria della Rappresentanza. «Non esiste più».
Cancellare la cultura armena
Un successivo incontro con i rappresentanti della Chiesa Apostolica conferma le preoccupazioni delle entità governative dell’Artsakh: «La cancellazione del patrimonio culturale e religioso dell’Armenia nelle aree occupate si inserisce nell’ottica del tentativo di dimostrare che il Nagorno-Karabakh appartiene all’Azerbaijan». Una chiara replica di ciò che è stato compiuto nell’exclave azero del Naxçivan, che in epoca sovietica fu abitato in parte da armeni». Analogamente al Nagorno-Karabakh, anche la regione del Naxçivan (storicamente armena) fu Inserita dal 1924 tra le Repubbliche autonome sotto l’amministrazione azerbaijana. In epoca sovietica, a fronte di un forte influsso di azeri e di un più alto tasso di natalità tra questi ultimi, la popolazione armena in Naxçivan è passata da 15.600 nel 1926 (circa il 15% del totale degli abitanti) a 3.000 nel 1979 (poco più dell’1,4%). Un notevole calo demografico che ricorda quanto avvenuto nello stesso arco temporale in Nagorno-Karabakh, in cui la percentuale di armeni – che rappresentavano la quasi totalità dei cittadini – si è ridotta al 76%, mentre il numero di azeri è quintuplicato entro la fine del periodo.
I più recenti studi condotti in seno al Caucasus Heritage Watch della Cornell University sul patrimonio culturale armeno in Naxçivan hanno mostrato come non sia più presente alcuna traccia armena nell’area, compresi cimiteri, chiese e monasteri. La Chiesa è in possesso di report che attestano i tentativi di distruzione del patrimonio storico armeno in Karabakh – prontamente consegnati al Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani, culturali e religiosi e alle principali organizzazioni attive in materia di diritti umani. Tuttavia, il mancato consenso dell’Azerbaijan – che nega ogni accusa e, al contrario, biasima l’Armenia per aver adottato comportamenti simili a danno del patrimonio azero – ha impedito l’accesso alle zone contese da parte di una delegazione UNESCO che possa attestare lo status del patrimonio armeno in Karabakh.
Scontro di civiltà?
I danni perpetrati nei confronti dell’eredità culturale armena e gli episodi di xenofobia sembrano suggerire una possibile interpretazione del conflitto come scontro valoriale tra due fedi differenti – quella cristiana da un lato, e quella islamica dall’altro. «Non c’è alcuna forma di odio basato sulla religione da parte armena», mi ripete più volte Harutyun, «mentre da parte di Baku è in atto un tentativo di presentare la componente religiosa come uno dei fattori più rilevanti del conflitto». Harutyun motiva questa sua affermazione riferendosi al fatto che, a suo dire, la minoranza yazida in Armenia viva in condizioni pacifiche e in una condizione di perfetta assimilazione.
Gli armeni in Iran costituiscono uno dei rami tradizionalmente più influenti della diaspora in Medio Oriente, e a seguito della Rivoluzione di Velluto del 2018, che ha visto il trionfo al potere del Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan, la cooperazione ed i legami tra i due Paesi si sono particolarmente rafforzati. Di fatto, gli eccellenti rapporti economici si sono concretizzati nella creazione di una zona economica franca attorno a Meghri, volta a promuovere l’apertura di aziende iraniane in territorio armeno. L’Iran inoltre ha accolto con particolare favore la proposta di un International North-South Transport Corridor (INSTC) che attraverso oltre 7.000 km di strade, ferrovie e reti navali permetterebbero all’Iran di raggiungere sia il Mediterrano, sia la Russia deviando l’Anatolia e passando attraverso l’Armenia. In prospettiva geo-strategica, notevole è stato il supporto diplomatico di Teheran all’Armenia in funzione anti-azera nel corso del conflitto in Nagorno-Karabakh.
A suscitare le preoccupazioni di Teheran è infatti la possibilità che i successi militari dell’Azerbaijan possano riscaldare i sentimenti nazionalisti pan-azeri nelle regioni a nord del Paese, rivendicate da Baku e spesso designate con l’appellativo «Azerbaijan del Sud». A tal proposito, gli azeri costituiscono la più corposa minoranza etnica in Iran, e numerose sono le rivendicazioni per un maggiore rispetto dei propri diritti linguistico-culturali, in primis la possibilità di ricevere un’istruzione nella lingua madre azero-turca, fortemente negata dal governo di Teheran. Sebbene un eventuale coinvolgimento bellico dell’Iran in riferimento a potenziali nuove escalation delle tensioni fra Armenia e Azerbaijan resti incerto, a detta del Viceministro degli Esteri Paruyr Hovhannisiyan il sostegno iraniano a Yerevan risulta attualmente porsi in chiave anti-panturca e anti-azera, con l’obiettivo prioritario del mantenimento dello status quo in riferimento ai confini con l’Armenia.
L’arma diplomatica
Nel continuo sforzo per una pace duratura, sono due le linee diplomatiche su cui l’Armenia sta attualmente concentrando i propri sforzi. Durante il mio incontro al Parlamento Armeno, gli esponenti del partito in carica Contratto Civile Artur Hovannisyan e Hripsime Grigoryan mi hanno ampiamente illustrato come la normalizzazione dei rapporti con la Turchia sia una delle priorità più urgenti per Yerevan: i rispettivi Rappresentanti Speciali sono infatti impegnati nella definizione di un processo da svolgersi senza precondizioni che porti anzitutto a stabilire relazioni diplomatiche e all’apertura dei confini con Ankara.
Al contempo, il Ministero degli Esteri tenta di perseguire la via del dialogo con Baku, come testimonia l’incontro del 31 ottobre scorso a Sochi, nella Federazione Russa, durante il quale il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan e il Presidente azero Ilham Aliyev hanno firmato un documento congiunto sotto la supervisione del Presidente russo Vladimir Putin in cui hanno dichiarato di astenersi dall’uso della forza nelle proprie relazioni future. Ciononostante, la stretta relazione politica e militare che intercorre tra Aliyev ed Erdoğan sembra minare il successo di una normalizzazione senza condizioni: «nonostante le dichiarazioni ufficiali, abbiamo notato come la Turchia stia coordinando i propri sforzi con l’Azerbaijan, cercando il consenso di quest’ultimo per procedere con la normalizzazione», afferma Hripsine Grigoryan. «Aliyev sta perseguendo una retorica militare e aggressiva perchè ha fretta», mi confessa in un incontro successivo il Viceministro degli Esteri Paruyr Hovannisiyan. «Il prossimo anno ci saranno le elezioni in Turchia, e qualora Erdoğan non dovesse essere rieletto, il sostegno di Ankara a Baku non sarà così scontato».
Storicamente complesse, le relazioni Armenia-Turchia hanno conosciuto periodi di riavvicinamento nei primi anni Duemila sotto gli sforzi diplomatici dei rispettivi presidenti Serz Sargsyan e Abdullah Gül, senza tuttavia giungere ad una ratifica dei protocolli di normalizzazione firmati nel 2009. Tuttavia, a seguito della Seconda guerra del Nagorno-Karabakh la ripresa delle relazioni tra i due Paesi ha subito un’accelerazione grazie a periodici incontri dei Rappresentanti speciali di Ankara e Yerevan. La normalizzazione non giungerà tuttavia senza costi per Yerevan, conscia del fatto che gli interessi primari della Turchia riguardano l’apertura di un corridoio terrestre che colleghi il Naxçivan con l’Azerbaijan, concretizzando così quella che Mustafa Kemal definiva «la porta Turca» che avrebbe collegato Istanbul al Caspio e dunque la Turchia all’Asia turca.
Stretti tra Washington e Mosca
A livello interno, tra gli armeni spopola un forte sentimento di delusione nei confronti dell’alleato russo. Distratta da oltre dieci mesi di guerra in Ucraina, la Russia di Putin non ha infatti reagito alle continue richieste dell’Armenia di intervenire a seguito dell’aggressione militare nelle aree di confine del mese di settembre, né tantomeno si è rivelata efficace l’appartenenza di Yerevan al CSTO, un’alleanza militare a guida russa ma a trazione turcofona sul modello della NATO, che prevede mutua assistenza in caso di attacco esterno.
In quest’ottica si può dunque leggere il rifiuto del Primo Ministro Pashinyan di sottoscrivere la dichiarazione finale congiunta in occasione del meeting del CSTO che si è svolto lo scorso 24 novembre nella capitale armena, decisione frutto della consapevolezza di Yerevan di non poter più far riferimento alla protezione russa in seno all’Alleanza. Di pari importanza la questione delle armi, che ha costretto l’Armenia a guardare verso l’India e la Cina a fronte della riduzione delle forniture da Mosca. Al disappunto verso la Russia si accompagna poi una rinnovata simpatia verso gli Stati Uniti – che a Yerevan hanno la seconda ambasciata più grande al mondo, dopo Baghdad. A riprova della complessità degli equilibri regionali nel quadro geopolitico caucasico, la presenza statunitense in Armenia è stata preceduta dal riconoscimento da parte del Congresso del genocidio armeno nel 2021 ed è culminata lo scorso settembre con la visita di Nancy Pelosi nella capitale.
Obiettivo americano è quello di promuovere gli interessi nazionali nella regione, tanto allontanando l’Armenia dall’orbita russa e dall’Unione Economica Eurasiatica, quanto cercando di colmare il vuoto lasciato da Mosca impantanata nella guerra in Ucraina, proponendosi come mediatrice in un piano di pace che vedrebbe l’Armenia abbandonare il Karabakh in cambio della normalizzazione dei rapporti con la Turchia e della stabilità dei confini. Alla luce di ciò, è curioso notare come erano invece russe le bandiere che il 30 ottobre hanno sventolato a Stepanakert, capitale dell’Artsakh, durante una manifestazione che ha visto scendere in piazza quasi 60.000 persone in concomitanza con una sessione del Parlamento armeno. Benché il Parlamento rifiuti lo scenario di un eventuale abbandono del Nagorno-Karabakh, non è da escludere che le negoziazioni possano procedere in questo senso.
Conscia dell’impatto del conflitto ucraino sulla presenza russa in Caucaso, seppur indebolita Mosca mostra ancora una forte attitudine alla difesa dei propri interessi strategici in una regione che considera blizhneye zarubezh’ye, «estero vicino», specialmente in considerazione dei tentativi di Washington, Bruxelles e Teheran di occupare i nuovi spazi che si sono creati nella complessa scacchiera caucasica. Con l’obiettivo di mantenere i propri peacekeepers in Artsakh e, al contempo, frenare la spinta di Baku tra le braccia di Ankara, priorità di Putin è dunque la difesa della propria posizione di garante della stabilità della regione, in un difficile esercizio di bilanciamento delle forze esterne interessate ad un ruolo forte in una partita che attualmente grava sulla popolazione armena in Karabakh.
Quale futuro per il Nagorno-Karabakh?
Retaggio dell’inadeguata suddivisione amministrativa sovietica, Stepanakert si trova condannata ad accettare un destino segnato dagli interessi strategici delle grandi potenze coinvolte, e ripone in Putin la speranza della propria esistenza libera dalle interferenze di Baku, acclamato da un’Unione Europea fortemente assetata della sua energia. Se il destino dell’Artsakh sembra ormai segnato, sono ancora molti gli interrogativi che rimarranno aperti nei mesi a venire, a partire dalle reazioni della popolazione armena nei confronti di un’eventuale presa di posizione di Pashinyan in favore dell’integrità territoriale dei propri confini. Nel frattempo, la superiorità militare di Baku e la fratellanza con i vicini Turchi fa presagire una nuova ondata di instabilità sul Caucaso meridionale, da cui i soli abitanti dell’Artsakh usciranno inevitabilmente sconfitti.
Foto: Complesso Echmiadzin, Armenia © Valentina Chabert
Valentina Chabert
Dottoranda di Diritto internazionale, Università La Sapienza