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Quel “pestaggio di Stato” raccontato da chi per primo l’ha scoperto

by Nello Trocchia

di Nello Trocchia. Giornalista.

Intervista a cura di Gaetano De Monte. Giornalista.

Nel suo ultimo libro Pestaggio di Stato, edito da Laterza, il giornalista Nello Trocchia ripercorre – mettendo in evidenza le reazioni del mondo politico e i depistaggi – i fatti del 6 aprile del 2020 nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere. In tale occasione, quasi 300 agenti della polizia penitenziaria, per circa 4 ore, massacrarono di botte la maggior parte dei detenuti presenti nel reparto Nilo.

«Se non fossero stati pubblicati i video, di certo, questa storia non avrebbe avuto l’eco mediatico che ha avuto oggi», aveva dichiarato la scorsa estate Nello Trocchia, inviato del quotidiano Domani. Erano i giorni in cui la stampa internazionale e tutta la televisione italiana riprendeva i suoi pezzi, e mandava in onda le immagini che venivano svelate per la prima volta all’opinione pubblica dal cronista. Trocchia raccontava i fatti di tortura accaduti il 6 aprile del 2020 nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, quando quasi 300 agenti della polizia penitenziaria, per circa 4 ore, massacrarono di botte la maggior parte dei detenuti presenti nel reparto Nilo.

Fatti per cui qualche giorno fa si è aperto un processo davanti alla Corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di 105 imputati, uomini e donne dello Stato coinvolte a vario titolo in un giudizio che dovrà accertare le loro responsabilità penali. Nell’attesa, 77 persone, tra agenti e responsabili del penitenziario, sono stati sospesi dal proprio ruolo dal ministero di Grazia e Giustizia, nel giugno del 2021. Altri, hanno continuato a lavorare lì dentro. Non solo funzionari, ma anche alcuni medici sono stati coinvolti nel giudizio, e ora dovranno rispondere, a vario titolo, di accuse gravissime. Le diverse imputazioni contestate, complessivamente, infatti, vanno dai reati di tortura aggravata, falso in atto pubblico, favoreggiamento personale, a quelli di lesioni, maltrattamenti, calunnia e falso. Tornando alla “previsione” del cronista di cui si diceva all’inizio, in effetti, la prima pagina di Domani del 28 settembre del 2020 riportava la notizia del decreto di persecuzione disposto dai magistrati nei confronti degli agenti penitenziari e, insieme, il racconto fornito agli stessi giudici magistrati da un detenuto. Ma, soprattutto, il quotidiano scriveva dell’esistenza dei video che documentavano le violenze nei confronti di persone costrette a mettersi in ginocchio, con le schiene fregiate e diverse contusioni riportate sui corpi. In quelle stesse ore, davanti all’ex carcere Francesco Uccella, l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini diceva ai microfoni che «non si possono trattare come delinquenti i servitori dello Stato, indegnamente indagati, visto che le rivolte non le tranquillizzi con le margherite, oggi è una giornata di lutto». Quel che accadde il 6 aprile del 2020, e anche successivamente, in relazione alle violenze, ma anche alle reazioni che vi furono da parte del mondo politico e ai depistaggi che sarebbero stati attuati da parte di persone al vertice della polizia penitenziaria, sono ora l’oggetto del libro Pestaggio di Stato, edito da Laterza e scritto da Nello Trocchia, il giornalista che per primo ha scoperto “il carcere degli orrori”; una vicenda nel frattempo divenuta oggetto di una indagine giudiziaria condotta dai carabinieri e guidata dalla locale procura, e ora approdata a processo presso la Corte d’Assise d’Appello di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta.

Com’è cominciata la sua inchiesta giornalistica?

All’inizio ho raccolto alcuni stimoli da parte degli allora Garanti per le persone private della libertà della regione Campania e del comune di Napoli, Samuele Ciambriello e Pietro Ioia [già detenuto per narcotraffico, è stato arrestato lo scorso ottobre con l’accusa di aver introdotto in carcere cellulari e droga], che per primi mi hanno raccontato di aver raccolto testimonianze tra i detenuti e tra le loro famiglie. Poi, ho incontrato alcuni detenuti che avevano denunciato le violenze. Uno di loro mi ha riferito in maniera anonima di essersi riconosciuto nei video che gli avevano mostrato gli inquirenti, mentre prendeva botte da altri uomini dello Stato. Poi, ho incrociato le fonti, i racconti, le diverse versioni, quelle degli uomini dello Stato e quelle dei familiari dei carcerati. Mi sembrava un racconto sproporzionato da entrambe le parti. Da una parte, si diceva che era stato picchiato un detenuto disabile e che un ragazzo straniero, Lamine, era stato gonfiato di botte ed era poi deceduto qualche tempo dopo. Dall’altra, alcuni uomini dello Stato scrivevano nelle loro relazioni che era stato trovato olio bollente nelle celle da usare contro i poliziotti. Così, mi muovo con un margine di dubbio, fino a quando non ricevo una rivelazione da parte di un testimone e poi sollecito altre e diverse fonti. Da quelle prime intuizioni e da tanta pazienza è cominciata questa inchiesta: da un innesco pieno di perplessità rispetto alle ombre che caratterizzavano le costruzioni ufficiali. Così usciamo dal condizionale dei dubbi per approdare al tempo indicativo delle certezze. E scrivo che le violenze degli agenti ci sono state. Senza alcun dubbio.

E la politica, che fa in quel momento?

Anche qui, due versioni: ci sono deputati come Paola Nugnes (M5s), Erasmo Palazzotto (Pd), Riccardo Magi (+Europa), che presentano interrogazioni parlamentari e riferiscono delle denunce presentate alla procura di Santa Maria da parte dei Garanti territoriali dei detenuti e dell’Associazione Antigone, dall’altra parte c’è chi come il sottosegretario alla giustizia Vittorio Ferraresi, della Lega, rispondendo alla Camera a un’interrogazione presentata da Riccardo Magi, riconosce che esiste una inchiesta in corso. E consegna la sua versione dei fatti. Ricordando che il 5 aprile, a seguito della notizia di alcuni casi di positività in uno dei reparti, in un padiglione si è accesa una protesta che Ferraresi definisce “violenta”. Secondo la ricostruzione fatta nelle aule parlamentari dal politico, i detenuti attraverso la demolizione di numerose suppellettili e arredi dell’amministrazione tra cui brande, tavoli e sgabelli, e non solo, si barricavano all’interno delle sezioni di allocazione, impedendo ogni accesso al personale penitenziario. E poi Ferraresi aggiunge che il comandante ha richiesto ausilio di risorse, avendo ricevuto minacce di ritorsione da parte dei rivoltosi qualora si fosse fatta irruzione per il doveroso ripristino dell’ordine e della sicurezza. Quella perquisizione straordinaria, debordata in pestaggi e violenze, il sottosegretario del governo Conte I la chiama «doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto». Nel libro che ho scritto rivelo per la prima volta che quella risposta del politico è un autentico copia-incolla della relazione scritta a suo tempo da Antonio Fullone, il provveditore delle carceri della Campania che è oggi sotto processo per aver ordinato quella perquisizione e per averne depistato gli esiti devastanti, e che allora era già indagato per le violenze. Come il sottosegretario alla Giustizia,  evidentemente, già poteva sapere.

E il nuovo governo, invece, cosa dovrebbe fare oggi per affrontare il tema della giustizia e quello connesso delle carceri?

Il nuovo ministro della Giustizia, l’ex magistrato Carlo Nordio, ha riconosciuto che alcuni piccoli reati andrebbero depenalizzati, o comunque ha aperto la strada alle pene alternative alla detenzione, mostrando la propria contrarietà, verso chi fa parte del suo stesso governo e pensa invece che ogni fenomeno sociale andrebbe governato con la carcerizzazione. Aumentando le pene e prevedendo nuovi reati. All’interno dell’esecutivo è lampante una contraddizione in termini, quando Salvini twitta in cento caratteri “più carcere per tutti”. Il cosiddetto decreto anti-rave è l’emblema di questa contraddizione, di questa schizofrenia governativa. Questo è seguire la linea della propaganda invece che quella dell’attuazione della Costituzione, della prevenzione dei reati e della formazione del personale giudiziario. Sono tesi frutto di una cultura giuridica abbietta.

Il precedente esecutivo guidato da Mario Draghi ha approvato una riforma che è stata considerata, da più parti, rivoluzionaria sul tema giustizia. Come giudica la legge Cartabia? 

Rispondo con le parole dette in due interviste che ho realizzato per Domani da alcuni dei più importanti magistrati italiani: da Enrico Zucca, sostituto procuratore a Genova e pubblico ministero nel processo contro i militari accusati delle violenze contro i manifestanti al G8 di Genova, che l’ha definita “omissiva”, “scellerata”, “irragionevole”. Scagliandosi contro la previsione della prescrittibilità del reato di tortura che Zucca considera una deliberata omissione. Rileva di contro che la tortura così come disegnata dalle convenzioni internazionali ha uno statuto specifico che la distingue da ogni altro reato. Ed è dunque considerato imprescrittibile, essendo a garanzia della salvaguardia di diritti umani fondamentali. E dalle parole che mi ha detto Nicola Gratteri, procuratore capo a Catanzaro e magistrato in prima linea contro le mafie, invece, la riforma Cartabia viene considerata “un regalo alle mafie”. Una legge di cui si fregheranno le mani delinquenti e faccendieri. Gratteri ha ipotizzato che è la riforma peggiore dal 1986, che farà sprofondare ancora di più la fiducia degli italiani nella Giustizia. E ha sostenuto che fare quella riforma è umiliante. Umiliante per l’Italia e per i cittadini. 

L’entrata in vigore della riforma Cartabia è stata stigmatizzata anche dai sindacati dei giornalisti che hanno manifestato davanti ai tribunali di tutte le città del Lazio perché la legge introdotta prevede una serie di divieti nei rapporti tra cronisti e fonti giudiziarie. Mentre nella prefazione al suo libro, Ilaria Cucchi, scrive che il giornalismo d’inchiesta oramai non esiste quasi più da noi, e che si preferiscono i “prodotti” fatti in serie e tutti uguali come frutto di un franchising. Cosa pensa al riguardo? C’è ancora spazio e libertà per i cronisti che praticano l’inchiesta in Italia?

Sono profondamente d’accordo con Ilaria. C’è sempre meno spazio per l’inchiesta soprattutto perché esiste una disaffezione al giornalismo, considerato oggi qualcosa di totalmente gratuito. Questa stessa disaffezione, tuttavia, è anche frutto della disintermediazione, della perdita di credibilità del giornalista. Dei giornalisti considerati tutti uguali. Come è nella vulgata berlusconiana, e poi anche in quella di Beppe Grillo. D’altra parte, esiste sempre di più questa difficoltà nel realizzare con libertà le inchieste, perché il potere non gradisce. E cerca di distruggerti con le querele temerarie. Non riesco più a tenere il conto di quante querele ho ricevuto finora; ma so per certo che sto affrontando tre processi. 

Ha ragione Trocchia. Accade sempre più spesso (e gli attacchi avvenuti nei suoi confronti più volte negli ultimi anni lo dimostrano platealmente) che i cronisti vengano colpiti nei loro “patrimoni”, per farli tacere quando affrontano tematiche spinose, come le mafie, i traffici dei rifiuti, gli affari opachi dei potentati di questo Paese. Si può diventare cronisti ancor più scomodi per il potere specialmente quando prima di tutti si scopre un “pestaggio di Stato”.

Ph. Carcere © Tim Hüfner / via Unsplash

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