di Mariangela Di Marco. Giornalista
Era il 19 febbraio 1937 (o Yekatit 12 nel calendario etiope) e tra Addis Abeba, in Etiopia, e le sue campagne vennero uccisi dal regime fascista 30mila civili innocenti, dopo alcune bombe lanciate da giovani partigiani etiopi verso le autorità colonialiste italiane. Oggi quel 19 febbraio è divenuto Giornata della memoria delle vittime del colonialismo italiano, ricordata però solo a livello locale: l’ultima, in ordine cronologico, è stata approvata dal Consiglio comunale di Bologna il 13 febbraio, mentre lo scorso 6 ottobre era stato il turno di Roma «in quanto Capitale d’Italia e città che presenta le più numerose tracce del colonialismo» riporta la mozione che intende inoltre «modificare conseguentemente le targhe di un gruppo di strade ispirate al colonialismo, iniziando da alcune di queste che sono state luogo di eccidi e stragi, come Addis Abeba, Amba Aradam, Ascianghi, Endertà, Tembien o che commemorano la perdita di soldati».
La centralissima piazza dei Cinquecento, nei pressi della stazione Termini di Roma, è uno degli oltre 150 odonimi, ovvero i nomi delle strade e delle piazze che formano un centro urbano, della città che rimandano a un passato della storia italiana ancora oggi poco conosciuto e discusso dall’opinione pubblica. Ricorda il numero dei soldati italiani caduti nel 1887 nella battaglia di Dogali – in Eritrea – e che dimentica tuttavia le 500mila vittime stimate del colonialismo italiano in Africa. A cui, sempre a Roma, è dedicato il cosiddetto “quartiere Africano” – parte della più ampia zona Trieste – di cui viale Libia, Somalia come via Assab, Cheren e Massaua fanno parte. Questa toponomastica venne attribuita tra il 1920 e il 1937 con intenti meramente celebrativi da parte del regime fascista che, qui come in tutto il Paese, volle alimentare la macchina del consenso esaltando la politica espansionistica d’Oltremare e proclamare la propria superiorità sulla vecchia Italia liberale di fine Ottocento da cui la colonizzazione prese le mosse. Lo stesso viale Eritrea, per esempio, venne inaugurato nel 1932 dal duce in persona.
Basta alzare lo sguardo e interrogarsi sul significato di vie, piazze, obelischi e statue presenti su tutto il territorio nazionale per comprendere quanto di questo passato coloniale in realtà non solo si sappia ben poco ma che sia anche un rimosso significativo nel Paese, nella politica così come nella società civile. Emblema di tutto questo è la figura di tutto questo il generale Rodolfo Graziani, governatore della Libia, della Somalia e viceré d’Etiopia che quel 19 febbraio 1937 venne ferito e ciò suscitò da parte delle autorità una delle rappresaglie più sanguinose della storia coloniale italiana. Oggi per Graziani esiste un monumento ad Affile, suo comune di nascita in provincia di Roma, nonostante fosse considerato dall’Onu un criminale di guerra, mentre non si parla della repressione, dei campi di concentramento, dell’uso intensivo di gas tossici, delle leggi razziali, della violenza sulle donne africane, delle esecuzioni sommarie, delle pene corporali, delle persecuzioni dei massacri che la storiografia ha portato alla luce.
«Parlando in inglese con un profugo – raccontava il giornalista e scrittore Alessandro Leogrande ne La frontiera – mi sono accorto del ricorrere di alcune parole italiane come “ferro”, “otto” o “Gesù Cristo”. Poi ho scoperto che si tratta dei nomi di alcune pratiche di tortura, rimaste lì dal tempo del colonialismo italiano!».
«In Italia siamo in ritardo rispetto ad altri Paesi europei nell’elaborazione della questione coloniale» commenta Giulia Grechi, docente di antropologia culturale presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. «Il colonialismo rimane una delle rimozioni più forti della nostra storia e della nostra identità perché è avvenuto in un periodo molto lungo in cui è stata costruita l’identità nazionale – continua l’autrice di Decolonizzare il museo (Mimesis Edizioni, 2021) –. Non facciamo molto caso ai monumenti, ma in realtà sono un elemento determinante perché pongono quei valori in cui una comunità possa riconoscersi e oggi siamo sempre più legati alla conservazione acritica dei simboli del passato. Non sto dicendo che dobbiamo buttare giù le statue ma solo che è necessario ri-significare lo spazio pubblico» afferma l’accademica che ha sottoscritto e promosso l’appello della Rete Yekatit12-19Febbraio – gruppo di associazioni, istituti culturali, istituzioni, esponenti della società civile e intellettuali – che ha organizzato a Roma dal 13 al 19 febbraio una settimana di iniziative culturali per contribuire ad avviare un processo di riflessione collettiva e studio sui crimini del colonialismo italiano e sulle sue conseguenze nella contemporaneità.
«Parlare di colonialismo è fondamentale perché spesso facciamo un errore prospettico quando collochiamo il rigurgito del razzismo a fenomeni recenti di immigrazione» spiega Silvano Falocco, direttore della Fondazione Ecosistemi e membro della Rete Yekatit12-19Febbraio. «Se si analizza il passato coloniale europeo, si comprende che il razzismo è propedeutico al colonialismo e che ne è il frutto» conclude l’autore di Roma coloniale (Le Commari Edizioni, 2022).
Non si tratta quindi di una battaglia rivolta al passato – come riporta il comunicato Rete Yekatit – perché, lo ricorda la Risoluzione del Parlamento Europeo del 26 marzo 2019, «le persone di origine africana sono vittime di razzismo, discriminazione e xenofobia in particolare, nonché di una disparità nell’esercizio dei diritti umani e dei diritti fondamentali in generale» e che è indispensabile «riconoscere ufficialmente e a celebrare le vicende delle persone di origine africana in Europa, tra cui figurano anche le ingiustizie e i crimini contro l’umanità del passato e del presente, quali la schiavitù e la tratta transatlantica degli schiavi o quelli commessi nell’ambito del colonialismo europeo». Dei fatti che ci portano molto lontano da quel falso mito degli “italiani brava gente”.
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Mariangela Di Marco
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