di Enzo Nucci. Giornalista. Già corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana.
La Repubblica democratica del Congo, il cui fragile governo ha da tempo spalancato le porte alle truppe straniere, è un laboratorio politico-militare dove si continuano a sperimentare le più ardite alleanze e rappresenta un tassello importante del puzzle della Terza guerra mondiale “a pezzi”.
La Repubblica democratica del Congo è a pieno titolo un tassello del sanguinario puzzle della Terza guerra mondiale “a pezzi” attualmente in corso di cui parla papa Francesco. Anzi, è il drammatico laboratorio politico-militare dove si continuano a sperimentare le più ardite e astruse alleanze.
Nessuno ha voluto trarre insegnamenti da quella che fu definita la Guerra mondiale africana: il conflitto che tra il 1998 e il 2003 spazzò via 5 milioni e mezzo di persone (decedute in maggior parte per fame e malattie, conseguenza delle ostilità) in cui furono coinvolti otto Paesi africani e 25 gruppi armati con l’obiettivo di controllare le enormi ricchezze del sottosuolo. Quel conflitto non risolse nulla e oggi si torna all’antico.
Il fragile governo di Kinshasa ha infatti da tempo spalancato le porte del Nord- Est del Paese alle truppe straniere. Nelle provincie di Ituri, Nord Kivu e Sud Kivu operano le forze armate della Comunità dell’Africa orientale (Eac) che comprende Kenya, Tanzania, Uganda, Burundi, Ruanda e Sud Sudan.
L’esercito congolese e reparti di quello ugandese sono da più di un anno e mezzo operativi in azioni congiunte contro l’Adf (Forze democratiche alleate), gruppo armato di origine ugandese attivo nelle regioni dell’Ituri e del Nord Kivu. L’esecutivo di Kinshasa per sostenere questo sforzo bellico ha varato una legge finanziaria che prevede per il 2023 una spesa di un miliardo di dollari destinata unicamente all’esercito.
Il budget complessivo per difesa e sicurezza sarà di quasi 15 miliardi di dollari, con una crescita del 32% rispetto a quello del 2022, stimato intorno agli 11 miliardi di dollari. La Russia è il maggiore fornitore di armi e munizioni. Un pugno in faccia (e un altro nello stomaco) ai 96 milioni di congolesi che sopravvivono con un reddito annuale di 580 dollari a testa, meno di 2 dollari al giorno, che inchiodano la nazione africana negli abissi delle classifiche dello sviluppo umano. Un destino beffardo per questo Paese che i coloni occidentali definivano “uno scandalo geologico” per la ricchezza di risorse naturali (diamanti, oro, coltan, cobalto, petrolio, legni pregiati).
Alla lunga lista delle potenze straniere scese militarmente in campo con i buoni uffici del presidente Felix Tshisekedi, dal 7 marzo si è aggiunta anche l’Angola, che ha annunciato l’invio di truppe nel nord Kivu per contrastare i miliziani del gruppo armato M23.
La decisione è maturata dopo il fallimento della mediazione che il governo di Luanda ha tentato per ricucire la profonda frattura tra Congo e Ruanda. Quest’ultimo (pur impegnato con lo schieramento di proprie truppe sul campo) è accusato da Kinshasa di sostenere i miliziani dell’M23, gruppo armato di etnia tutsi, la stessa del presidente ruandese Paul Kagame.
L’M23 ha ripreso le armi alla fine del 2021 (dopo la sconfitta subìta nel 2013 nell’Est del Congo) accusando il governo di Kinshasa di non rispettare l’accordo sulla smobilitazione e il reinserimento dei suoi combattenti. Sono già migliaia i congolesi costretti ad abbandonare le loro terre per rifugiarsi in Uganda, gli ultimi 170mila sfollati tra maggio e giugno scorsi.
L’M23 riunisce ribelli tutsi congolesi attivi nel Nord Kivu in precedenza appoggiati anche dall’Uganda. Proprio con questi appoggi nel 2012 riuscì ad avere il controllo dell’area e della città di Goma, il capoluogo. Le relazioni tra Kinshasa e Kigali sono tese da anni, ovvero dall’arrivo massiccio nell’est del Congo di hutu ruandesi accusati di aver massacrato i tutsi durante il genocidio del 1994. Rapporti che sembravano orientarsi verso il disgelo con l’elezione del presidente Tshisekedi nel 2019 ma che invece sono precipitati negli ultimi tempi, inducendo l’Angola a intervenire.
Da 22 anni restano sullo sfondo come comparse inanimate e prive di ogni potere i 15 mila peacekeepers delle Nazioni Unite, impegnati nella missione denominata Monusco, varata per difendere la popolazione civile dalle violenze dei contendenti e stabilizzare l’area.
La colpevole irrilevanza dei caschi blu ha esasperato la popolazione che da tempo attacca le loro basi invitandoli ad abbandonare il terreno. Sotto gli occhi di questa costosissima missione militare continuano a consumarsi le violenze. E da tempo fioccano sui caschi blu accuse di connivenza nel controllo di traffici con gruppi armati nell’estrazione di materiali preziosi, violenze su donne e bambini, corruzione, etc.
Il papa nella sua visita di febbraio in Congo ha richiamato tutti alle loro responsabilità. Nessuno escluso.
Foto © Magda Ehlers via Pexels
Enzo Nucci
Giornalista. Già corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana