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Praticate il diritto e la giustizia

by Alessandra Ballerini

di Alessandra Ballerini. Avvocata

Intervista a cura di Claudio Paravati

Oggi è il 24 marzo, e Lei ricorda come il 24 marzo 1980, (anniversario dell’uccisione dell’arcivescovo Oscar Romero a El Salvador) sia la Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime. Ci dica cosa significa il “diritto alla verità” per Lei.

Il nostro Paese ha enormi problemi con la verità, siamo pieni di misteri in Italia e di stragi non risolte, delle quali tutti noi sappiamo più o meno com’è andata, ma non c’è una verità processuale e quindi non c’è una giustizia. Tra le persone e le famiglie che assisto, nessuna di loro mi ha mai detto, «vogliamo che prendi il colpevole e che si butti via la chiave». Non lo chiedono, non credo neanche che lo vogliano, ma vogliono giustizia, e per avere giustizia bisogna avere verità: cioè vogliono che nero su bianco sia detto che effettivamente Mario Paciolla è stato ucciso e non che si è suicidato; che Andy Rocchelli è stato ucciso dalla guardia nazionale e dall’esercito ucraino mentre faceva il suo lavoro di fotoreporter, e lo faceva bene, nel Donbass; che Giulio Regeni era un ricercatore rigoroso e prudente ed è stato ucciso da alti funzionari della National Security egiziana che lavorano per la dittatura di Al Sisi, che partica sistematicamente la tortura.

Ricostruire queste verità processuali serve per ristabilire il patto di fiducia tra cittadini e Stato, perché se lo Stato non mi ha protetto quando ero vivo, mi deve proteggere almeno da morto, deve sancire l’intangibilità dei corpi e tutelare tutti i cittadini, rivendicando la protezione di quei diritti fondamentali alla vita, alla libertà, al non subire trattamenti inumani e degradanti. E lo può fare solo ricostruendo la verità. Se anche il nostro Stato non è capace di verità, viene meno la fiducia.

Nel Suo libro La vita ti sia lieve. Storie di migranti e altri esclusi si incontrano innanzitutto le persone, e le loro storie. Il racconto parte da Genova, nel 2001.

Io ero avvocata già da prima ma quello è stato un trauma collettivo, che ha cambiato l’esistenza di molti di noi che eravamo lì. Ha cambiato la visione del mondo, della giustizia, del diritto, della lotta corale per i diritti e anche della resistenza perché in seguito, per molti anni, si è dovuto combattere per strappare quelli che Erri De Luca chiamerebbe “brandelli di verità”. Mi ricordo che all’inizio i telegiornali parlando della scuola Diaz dicevano che le macchie – ma non erano macchie, erano pozze di sangue! – che c’erano all’interno di quella scuola dove si era svolta la “macelleria messicana”, come fu poi definita,  erano succo di pomodoro. Quella mistificazione, insieme a tantissime altre di quei giorni, sembrano non rendere possibile il disvelamento di quello che è successo. Ancora oggi mancano tantissimi pezzi alla costruzione della verità. Non sappiamo come è stato possibile, chi ha dato l’ordine che questo avvenisse, né perché.

Nel libro ci sono due movimenti che ci fanno lasciare Genova, dove Lei vive e conduce la sua professione: da una parte andiamo verso altri luoghi, e dall’altra assistiamo al mondo che entra nel Suo studio. Andiamo con ordine, incontriamo luoghi come Lampedusa e il confine con la Francia. Tutti luoghi di confine. È lì dove Lei stessa va. È così?

Sì, è la frontiera, che non dovrebbe esistere per le persone. Sono i luoghi dove vado e incontro umanità e dove grandissime ingiustizie si compiono. Se penso a Lampedusa: è il posto di approdo di persone che fuggono da ingiustizie, che nel viaggio hanno subito ulteriori, terribili violazioni dei diritti umani, e che quando arrivano in una terra che dovrebbe essere democratica… continuano a subire violazioni dei diritti umani! 

Vengono rinchiuse negli hotspot in pessime condizioni per poi spesso venire respinte. Sono terre di confine anche dei diritti. Chi arriva è vivo, ma non è salvo.

E poi ci sono queste persone, di cui impariamo nomi e ascoltiamo le storie. Sembra quasi di vederla, di conoscerla questa umanità variegata, perché si incontrano sudamericani, africani, afghani, donne e uomini che entrano nel Suo studio. Il mondo Le bussa alla porta e Le entra continuamente in casa. Sono persone che innanzitutto hanno bisogno di ascolto, che vogliono essere ascoltate e chiedono aiuto, è così?

Sì. L’ascolto è fondamentale. Vogliono essere ascoltate e vogliono essere credute. Tutte le persone che vedono l’abisso, hanno bisogno di raccontarlo e hanno bisogno che qualcuno dica loro: «È vero, è successo» E anche «non è colpa tua». Perché è difficilissimo riconoscere l’abisso dell’essere umano, come per esempio avviene per le persone che sono vittime di tortura, e non restarne contagiati. Quasi tutte le persone che incontro sono state vittime di tortura, il mio spaccato dell’umanità è quello. La tortura, le rotture, le ferite che crea, spezzano anche la fiducia nell’umanità. Ci si tormenta chiedendosi come può un essere umano aver fatto questo, e senza una ragione al mondo. Secondo me questo è l’abisso.

E poi c’è Lei che entra nei luoghi di detenzione, in particolare nelle carceri, ma anche nei Centri di identificazione e di espulsione (i Cie). Ne esce un quadro molto preoccupante…

La privazione della libertà è in sé una violenza, e quindi questi sono luoghi di violenza e di sofferenza. Il fatto che la violenza sia imposta dallo Stato non rende questo male più digeribile, anzi. Per quello che riguarda i Cie, (ora CPR) assistiamo a una vera e propria frattura nel nostro Stato di diritto. Le persone vengono rinchiuse e subiscono questa violenza della privazione della libertà, non per qualcosa che hanno fatto, ma per qualcosa che sono: migranti privi, loro malgrado, di permesso di soggiorno.

Quando incontri le persone che sono rinchiuse nei Cie spesso ti dicono che ci deve essere un errore, uno scambio di persona… che non hanno fatto niente… e tu devi spiegargli che si trovano lì perché sono stranieri e non hanno il permesso di soggiorno. Spesso il permesso lo hanno pure richiesto ma non gli è stato concesso, o non erano nelle condizioni di ottenerlo. La nostra normativa in materia di immigrazione è una fabbrica di clandestinità. Non è colpa loro, ma comunque sono rinchiusi là dentro, per quello che sono, in definitiva. E allora a quel punto, quando acquistano la consapevolezza del motivo della loro reclusione, nasce la disperazione. MI sono sentita dire: «Ma io non potrò mai smettere di essere nero, no? O comunque di essere straniero in questa terra, e dunque continuerò a dover essere rinchiuso in gabbia?!».

C’è chi potrebbe dire che è diverso per il carcere però, perché le persone che si trovano lì sono state private della libertà per qualcosa che hanno fatto, ovvero per dei reati.

Sì certo, ma il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio. Noi abbiamo in Italia un quantitativo di reati punibili col carcere troppo ampio, e in carcere poi finiscono le persone povere e quelle che soffrono di varie forme di disagio, o che non possono godere di misure alternative. E spesso è proprio la condizione di disagio che li ha portati a commettere dei reati.

Chiaramente non può essere il carcere la “cura”! E non dimentichiamo che in carcere ci sono anche tantissime persone in attesa di giudizio (quindi in attesa di sapere se sono colpevoli o innocenti).

Inoltre il carcere non funziona per quello che è stato creato: per rieducare le persone. E questo è grave per la salute del nostro Paese: dati alla mano, chi entra in carcere ha molta più possibilità di commettere nuovamente reati a differenza di chi non prova il carcere e viene punito con misure alternative. Nei fatti il carcere è una macchina costosissima, e che non porta ai risultati sperati, perché è destinata a ricreare dei criminali. I magistrati stessi che frequentano le carceri, le definiscono “scuole di criminalità”.

Penso che sia necessario iniziare a pensare di abolire il carcere. Esistono dei testi meravigliosi su questo tema (come ad esempio Abolire il carcere Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini) che ci spiegano come questa sia una strada percorribile! Io la immagino come la rivoluzione che fece Basaglia in Italia, chiudendo i manicomi. Nessuno credeva che sarebbe stato possibile! Dove avrebbero messo tutte quelle persone? E invece era possibile. Basaglia diceva «Io non li lego e basta». Ecco si dovrebbe iniziare a pensare: «io non li rinchiudo e basta».

Nel libro si incontrano i traumi e le storie di violenza, di prostituzione, di abusi e di torture. Il lettore penso che possa affrontare tutto questo perché legge attraverso i Suoi occhi, e cioè attraverso gli occhi di chi è in posizione di ascoltare e di aiutare. Quanto è difficile dover essere una figura di riferimento così forte, un punto solido su cui tanti si appoggiano? 

Una domanda intima. È difficilissimo, infatti non mi sento per niente solida. Mi sento fragilissima ma provo ad essere solida per gli altri, perché devo esserlo. L’altro giorno quando ero a Padova con i signori Regeni chi ci presentava parlava di “spinta”. Allora ho pensato a quando si è in salita e qualcuno ti mette una mano sulla schiena. Lui si sta appoggiando su di te e fa meno fatica, ma chi si appoggia in realtà ti aiuta ad andare avanti, ti spinge. Penso che questo accada tra me e le persone che incontro. Sembra che siano loro ad appoggiarsi a me, ma loro mi danno la spinta e spero che loro sentano l’appoggio.

Attraverso il libro Lei ci racconta del lato difficile, doloroso, della vita. È un lato che siamo abituati a nascondere, a non guardare. Noi vogliamo vivere una vita bella, felice, ovattata. Non vogliamo guardare. Le vorrei chiedere: cosa pensa di questa parte così dolorosa della vita, sul male che si incontra nel mondo?

Che l’essere umano è capace anche di questo. Mi viene in mente un cliente che mi ha raccontato quello che accade durante la rotta balcanica. Spesso ai profughi ho visto le mani massacrate. I poliziotti di alcuni Paesi quando catturano i profughi gli prendono le mani, le schiacciano su una tavola e gli spezzano le dita. E mentre lo fanno gli dicono che adesso dovranno sempre dipendere da qualcuno. Questo è l’abisso, cioè non c’è una giustificazione per cui un essere umano debba fare una cosa simile a un altro essere umano che incontra per la prima volta sulla sua strada. Non c’è una ragione concepibile per questa crudeltà, eppure anche questa abita nell’essere umano. 

Poi però ho conosciuto anche tante persone che “raccolgono” i profughi e me li portano in studio. A volte sono italiani, altri stranieri, e persino clienti di prostitute. C’è un’umanità pazzesca, insospettabile, che riconosce l’uomo nell’altro uomo. E che non riesce a sottrarsi all’empatia.

Credo che la chiave sia quella. Credo che se il poliziotto croato mentre sta spaccando le falangi di un profugo, vedesse nel profugo un uomo, sentisse e percepisse il suo gesto come se stesse frantumando le proprie dita, non potrebbe farlo.

Ha deciso di aprire il libro citando il capitolo 22 del libro di Geremia, nella Bibbia: «Dice il Signore: praticate il diritto e la giustizia, liberate l’oppresso dalle mani dell’oppressore, non fate violenza, non opprimete il forestiero, l’orfano, la vedova». Perché proprio questo verso della Bibbia? E perché proprio la Bibbia? 

Non mi ricordo dove l’ho ascoltato la prima volta. Fino alla cresima ho frequentato la chiesa, ma non credo che fosse quello il luogo dove ho sentito queste parole. Ho amici religiosi, di varie religioni e uno di questi era don Gallo.

Non so bene chi mi ha recitato questo versetto, ma so che quando ho sentito queste parole ho pensato. “questo è il diritto”, questo è il diritto che vorrei vedere applicato e questa è l’umanità che giornalmente io incontro. L’orfano, la vedova l’oppresso, sono loro. Queste parole hanno risuonato dentro di me come un’eco, come forse accade con le preghiere.

Foto di © Chela B via Unsplash

Alessandra Ballerini

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