Intervista a cura di Amarilda Dhrami. Giornalista
Some call us Balkans è un nome curioso, he è stato abbreviato in SCUB. Il modo migliore di dirlo in italiano forse potrebbe essere: “Alcuni ci chiamano balcanici”, eppure in inglese suona meglio, forse perché è la lingua che hanno trovato in comune gli artisti protagonisti di questo progetto. Sarajevo, Belgrado, Skopje, Kosovo, Tirana e Ioannina è il primo tour fatto dagli artisti per andare contro stereotipi e pregiudizi, per poi approdare a Pristina in Kosovo, con una grande mostra collettiva di arte contemporanea. Ale Rilletti, Diona Kusari, Mary Marinopoulou, Sezer Salihi, Jelena Gajinović, Lori Lako, Lea Blau, Jelena (Jelly) Luis sono otto artisti emergenti che, oltre all’inglese, hanno trovato anche una un’altra lingua in comune, quella dell’arte. Con queste opere ognuno di loro rivendica lo spazio dei Balcani oltre gli stereotipi, immaginando nuove sinergie, modalità di abitare e riunirsi su un terreno comune.
Abbiamo intervistato Viola Gaba, project manager dell’associazione ICSE & Co. per comprendere la genesi di questo progetto.
Come è nata l’idea del progetto SCUB?
Il progetto nasce con l’idea di far luce e approfondire il tema dei Balcani che, seppur spesso sotto l’attenzione mediatica, viene trattato come una realtà monolitica, un’ “altra Europa” di cui non si conosce bene la ricchezza, la diversità, la dinamicità delle trasformazioni che sta attraversando.
Il progetto è stato fortemente voluto per dimostrare come la cultura e l’arte siano uno strumento necessario per facilitare il dialogo, per promuovere nuove forme di cooperazione e dare l’opportunità, soprattutto alle giovani organizzazioni locali, di essere protagonisti e portatori di nuove pratiche.
SCUB si basa su una Cooperazione Culturale che riunisce un partenariato multidisciplinare, che mette in collaborazione una vasta area geografica, partendo dall’Italia con ICSE & co., come capofila di progetto, proseguendo con i Paesi partner quali Grecia, con la Biennale Of Western Balkans; Albania con Tulla – Culture Center; Kosovo con Termokiss; Bosnia ed Erzegovina con Unsa Geto; Serbia con Tačka komunikacije; Nord Macedonia con Sociopatch Platform for civic engagement through artistic and cultural practices; e Germania con ZK / U – Zentrum für Kunst und Urbanistik di Berlino.
In questi giorni SCUB è arrivato alla tappa finale del suo viaggio durato 3 anni e dal 1 al 14 aprile nella città di Pristina, in Kosovo è stato organizzato l’evento SCUB exibition, una mostra collettiva di arte contemporanea. Come nasce l’idea della mostra?
La mostra è la fase finale del progetto, ed è stata concepita proprio come catalizzatore di tutto il processo, in modo da rendere fruibile l’esperienza degli artisti a un pubblico più ampio e permettere loro di dare visibilità ai propri lavori oltre i confini nazionali.
Come è stato entrare nel vivo della mostra e qual è stata la reazione del pubblico?
Il giorno dell’apertura della mostra è stato molto elettrizzante ed emozionante, percepiva l’energia di un ambiente giovane, pieno di curiosità verso la comunità di SCUB, e della presenza di una comunità internazionale. Ci sono voluti quasi due mesi di preparazione, abbiamo coinvolto producer, operatori e aziende locali, che hanno contribuito in maniera significativa alla preparazione della mostra e ha dato ancora più visibilità all’attività. Il pubblico era diversificato: artisti della scena locale, organizzazioni non profit, operatori internazionali, rappresentanti delle istituzioni locali.
Gli artisti sono tutti giovani, cosa rappresentano le loro opere?
Sono artisti emergenti, giovani, che provengono dai Paesi partner, che hanno fatto un percorso di un anno all’interno del progetto tra residenza artistica a Banja Luka (BiH) e un mese di viaggio nei Balcani occidentali, partendo da Sarajevo fino a Ioannina, con l’obiettivo di “Unlearning the Balkans” ovvero di disimparare i luoghi comuni sui Balcani.
Le loro opere rappresentano il tentativo di racchiudere questo percorso di analisi e decostruzione dei Balcani, in un certo senso l’oscillare tra il futuro e un passato che molti di loro non hanno vissuto direttamente a causa della giovane età, o di cui non hanno memoria. Proprio per questo dentro le loro opere sono “racchiuse” le memorie degli “altri”, dei propri cari, dei familiari, di persone incontrate durante il viaggio. Gli artisti utilizzano non solo un medium artistico, ma una moltitudine (video, proiezioni, performance, pratiche artistiche comunitarie). Ad esempio c’è una rappresentazione del muro di Berlino con appeso un gobelin (un tessuto che imita l’arazzo), arricchita dalla performance della madre dell’artista, che lavora in diretta il gobelin secondo una tradizione che ormai si sta perdendo. E poi ancora l’installazione di un’artista serba che vuole rappresentare l’idea di casa attraverso le parole di una suora incontrata durante la residenza artistica a Banja Luka, che recitano: «Casa è laggiù dove c’è amore, perdono, fratellanza e dove possiamo essere ciò che siamo».
Che aria si respira in città e all’interno della mostra?
Pristina è una realtà estremamente dinamica, moderna, ma che riesce sempre a conservare l’autenticità e il calore delle persone. A livello locale siamo stati travolti da un’ondata di ospitalità che ha fatto sentire tutti noi a casa.
Dentro la mostra invece si respira un’aria elettrizzante, non capita spesso di avere 8 artisti contemporaneamente in una mostra, e mettere in piedi una produzione artistica di questa portata.
Perché è importante una mostra di questo tipo, soprattutto in un momento storico di tensioni sociali e politiche?
Una mostra come Some Call us Balkans avviene in un momento in cui la scena artistica a Pristina era interamente canalizzata su un grande evento artistico culturale come Manifesta, una mostra biennale europea itinerante di arte contemporanea. È stata una grande sfida riuscire a presentarsi sulla scena artistica locale, e portare otto artisti internazionali è stato un evento significativo, che ha suscitato curiosità ed energie nuove nella comunità artistica.
Foto © Agon Nimani

Amarilda Dhrami
Giornalista