di Enrico Campofreda. Giornalista
Anche se Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato di essere “chiaramente in testa” alle elezioni presidenziali, al primo turno né lui né l’avversario Kemal Kılıçdaroğlu sono riusciti ad andare oltre il 50% dei voti, rendendo necessario un voto di ballottaggio il prossimo 28 maggio.
Se sarà Baba Tayyip oppure Baba Kemal, cioè Erdoğan o Kılıçdaroğlu, il tredicesimo presidente della Turchia nell’anno del centenario d’una nazione sorta dallo sfacelo dell’Impero, lo deciderà il ballottaggio del 28 maggio. Nella notte elettorale che ha visto oltre 55 milioni di cittadini recarsi alle urne (86%) il desiderio di conservazione e la voglia di cambiamento si sono contrapposte e vicendevolmente bloccate sotto la soglia del 50% più uno che avrebbe dato al Paese il padre che cerca.
Entrambi i candidati hanno cantato vittoria. Il cosiddetto “Gandhi turco” sosteneva che i dati ufficiali dell’agenzia Anadolu nascondessero il voto reale, Erdoğan il “sultano” affermava che l’opposizione volesse inficiare un suo recupero, che in effetti c’è stato perché la vigilia gli consegnava un inaccettabile per lui destino da sconfitto. La risalita di Erdoğan s’è fermata al 49.42%, contro il 44.95% dell’avversario, in una Turchia divisa in due: ventisei milioni e ottocentomila sul fronte islamico, ventiquattro milioni e mezzo fra i sei alleati-contro che si contrapporranno nuovamente ai vent’anni definiti di “regime”.
L’AGO DELLA BILANCIA
L’ago della bilancia saranno anche i quasi tre milioni di preferenze raccolte dal terzo incomodo, Sinan Oğan, mentre Muharrem İnce s’era inaspettatamente ritirato dall’agone a tre giorni dall’appuntamento. Oğan ha una formazione finanziaria, proviene dal Movimento nazionalista (Mhp) dal quale è stato espulso nel 2011 per aver sostenuto l’opposizione interna. Si definisce un esponente della Turchia nazionalista ed è accusato di xenofobia, in particolare verso i rifugiati siriani.
Vincere coi suoi voti può far comodo, ma diventa un marchio di quel buio che circola nel Paese, accanto alla tanta luce proveniente da ogni versante, sia il liquido Bosforo sia il montuoso e travagliato Sud-Est. E la lunga, combattuta, partecipatissima campagna elettorale marcata dall’orgoglio dei cent’anni della Turchia moderna e dall’angoscia del sisma del 6 febbraio, coi cinquantamila morti e i due milioni di sfollati, ha segnato gli schieramenti. Definiti tutti alleanze, perché tali erano a dimostrazione d’un esistente pluralismo, sebbene ci sia una componente, non solo politica, che lo trascorre in galera.
La corsa al Meclis [la Grande assemblea nazionale turca, cioè il Parlamento] ha dato all’Alleanza repubblicana 266 seggi al Partito della Giustizia e Sviluppo (Akp), 50 al Movimento nazionalista (Mhp), 5 al Refah Partisi (Yrp) per una maggioranza, ridotta, di 321 deputati che comunque gli consente di guidare il Paese. Nel 2018 i due maggiori gruppi avevano rispettivamente 295 e 49 onorevoli. L’opposizione raccolta nell’Alleanza nazionale ottiene 169 deputati col Partito repubblicano (Chp), 44 col Buon partito (İyi). Nel 2018 i rispettivi eletti erano 146 e 43.
Le restanti formazioni della coalizione: Deva [sigla che in turco significa “rimedio”, mira a maggiori libertà civili con un orientamento filoccidentale], Gelecek Partisi [Il “Partito del futuro”, fondato dall’ex Primo ministro Ahmet Davutoğlu, Demokrat Parti, Saadet Parti [il “Partito della felicità” conservatore islamista] non ottengono seggi. L’Alleanza lavoro e libertà formata dalla Sinistra verde (Yeşil sol) – la sigla con cui la formazione filo kurda Hdp ha aggirato l’ostacolo di non potersi presentare alle urne perché coinvolta in una controversia giudiziaria – e dal Partito dei lavoratori (Tip) ottiene nell’ordine 62 e 4 seggi. Così la copiosa minoranza kurda, che nel 2018 aveva eletto 67 deputati, continua ad avere propri rappresentanti soprattutto nelle province orientali.
LA CAMPAGNA ELETTORALE
L’intera campagna elettorale ha seguìto un percorso segnato dalla grandezza esplicitata dal partito di governo e dalla concretezza minimale dell’opposizione. Erdoğan (“l‘uomo giusto al momento giusto” recitava lo slogan impresso sulle gigantografie disseminate nel Paese), accanto alle opere pubbliche con cui un anno via l’altro la capitale e la metropoli sul Bosforo cambiano volto, ha sfoggiato la prima centrale nucleare in fase di costruzione ad Akkayu, nel distretto Sarıçam, per opera della Rosatom, la società statale russa specializzata in energia nucleare, beni nucleari non energetici e prodotti di alta tecnologia. Lavori iniziati nel suo precedente mandato del 2018 da terminare nel 2028. In quella data Baba Tayyip vorrebbe essere ancora lì a tagliare nastri inaugurali. Spostandosi nelle province ha presenziato ad Adana all’apertura di quattro ponti che collegano parti della città facendo risparmiare 286 milioni di litri di carburante annuo. Un investimento di 2.3 miliardi di lire turche che abbatte l’emissione di anidride carbonica.
Il contributo all’energia alternativa galoppa con un immenso impianto fotovoltaico in provincia di Konya, una spianata di pannelli per 20 milioni di chilometri quadrati, un’estensione di 2.800 campi di calcio. Nel comizio d’annuncio Erdoğan ha ricordato che produrrà solo l’1% del consumo elettrico nazionale, però risulta ecocompatibile. Si potrebbe proseguire, poiché ogni intervento pubblico del presidente uscente era ricco non solo di parole e promesse ma opere che i turchi possono vedere e utilizzare.
Un biglietto da visita formidabile che del resto ha costellato il ventennio del suo potere. Il rivale Kılıçdaroğlu ha scelto la via del giuramento (Sana söz sentenziava la sua propaganda che vuol dire appunto: “te lo prometto”). L’impegno del funzionario alevita diventato un temibile concorrente per il navigato presidente, sembra di piccolo cabotaggio. Una sorta di lista della spesa con cui annuncia all’elettore che provvederà a fornire: pasti gratuiti per i figli scolari, mezzi gratuiti alle mamme che li accompagnano a scuola, riduzione degli affitti e alloggi sociali per gli studenti universitari, occupazione statale per poliziotti, militari, insegnanti. Perlomeno centomila assunzioni.
Un intervento concreto che salvaguarda i bisogni giornalieri, come guarda al carovita il video inserito sui social in cui Baba Kemal discetta sulla cipolla, passata dalle cinque alla trenta lire turche al chilo. Uno sproposito per le massaie. Com’è uno sproposito l’inflazione che da oltre un biennio oscilla dal 40% all’80% e attanaglia la quotidianità dei ceti medi. È partito dalla spesa ordinaria il leader repubblicano per trattare l’angoscioso tema dell’inflazione che promette, se eletto, di ridimensionare tornando alla linea ortodossa indicata dagli economisti: aumentare i tassi d’interesse del denaro.
Poi, comunque, su altri temi scottanti (cosa fare dei 3.7 milioni di siriani sul suolo turco?) molti dei quali destabilizzano il mercato del precariato prestandosi, per necessità, a qualsiasi lavoro per qualsiasi compenso, la soluzione non pare così progressista. Anzi. Di mezzo c’è il sentimento nazionalista che vira sempre più all’insofferenza e alberga anche fra le fila del suo partito.
Rimpatri, ha detto “il Gandhi di Tunceli”, come fosse uno xenofobo qualsiasi, più del candidato Oğan che magari sul tema lo sosterrà il 28 maggio. L’intelligenza e la cultura politiche di Kılıçdaroğlu sanno che una grossa fetta dei siriani sono rifugiati, una loro ricollocazione in patria va patteggiata con Assad che, in quanto oppositori, non li ama e potrebbe perseguitarli.
Erdoğan sulla questione ha creato il presupposto del ripopolamento nell’area cuscinetto tolta manu militari al Rojava dei combattenti delle Ypg. Si tratta di un tema scottante che l’uno o l’altro presidente turco dovrà trattare con cognizione di causa, anche se in entrambi pare prevalere il tornaconto politico interno. Sull’altro delicatissimo scenario: la presenza turca sullo scacchiere internazionale, che il presidente uscente ha plasmato e manipolato nel secondo decennio del suo potere, diventato complicato rispetto all’iniziale luna di miele con la popolazione durata sino al 2012, non val la pena di smontare la posizione di forza finora conseguita.
La volontà di potenza personale di Erdoğan si lega a tal punto a quella nazionale che lui incarna lo spirito kemalista più e meglio di qualsiasi professionista della politica presente nelle formazioni turche che mettono Vatan (la patria) sopra ogni cosa. E dopo l’afflato con la Umma islamica, che è collante per un voto religioso ancor’oggi fortissimo, il “sultano” risulta l’unico capo di Stato d’una potenza regionale che può tener testa ai giganti americano, cinese, russo, diventando risolutore di problemi, ruolo assai apprezzato in geopolitica.
Gli analisti già dibattono su quel che potrà fare un presidente mite alla Kılıçdaroğlu che, tornando ai siriani, dovrebbe cercare accordi col clan Assad e con quelli di ayatollah e pasdaran. Pur sostenendo democrazia, diritti civili e di genere il “Gandhi turco” è in linea con l’antiamericanismo del panturchismo. È intenzionato a snellire la prassi dell’adesione svedese (non sappiamo se quella ucraina) alla Nato, ma al Parlamento di Bruxelles chiede l’abolizione dei visti per i concittadini e la riapertura d’un capitolo chiuso: l’ingresso turco nella Ue. Con una simile domanda i “mal di pancia” a Berlino e pure a Parigi si moltiplicheranno, visto che l’Unione è abituata a chiedere il “politicamente corretto” solo fuori dai suoi confini, entro i quali confeziona ostracismi sempre maggiori non solo per i migranti, ma verso qualsiasi identità differente dall’eurocentrismo.
Chiunque prevarrà a fine maggio, la politica estera turca non dovrebbe virare su novità sostanziali rispetto alle pieghe che, ad esempio, sul Mediterraneo orientale trovano contrapposizioni decennali per l’annosa vicenda cipriota e le più recenti beghe dello sfruttamento delle “Zone economiche esclusive” su cui la Grecia è intransigente. Dal 2015 la materia non riguarda soltanto l’utilizzo delle superfici di pesca o i pattugliamenti navali per la sicurezza, tutti sotto il cappello della Nato, ma lo sfruttamento dei giacimenti di gas nei fondali. Lì Ankara è marginalizzata, se non ampiamente sfavorita dal calcolo delle zone stesse in base non all’estensione costiera, bensì alla presenza di isole. Sebbene coi propri vascelli di ricerca (Oruç Reis, Yavuz, Barbados) tenga alto il piano della cosiddetta “Patria blu”.
IL PESO INTERNAZIONALE
Sulla crisi e conseguente guerra che sta coinvolgendo un pezzo di mondo, ovviamente quella in Ucraina, e sulle sue ricadute economiche il governo turco a trazione erdoğaniana s’è mostrato efficiente, sbloccando il passaggio dei cargo che attraverso il mar Nero distribuivano gli approvvigionamenti di cereali in vari angoli del globo che rischiavano un’emergenza alimentare. Dopo i conflitti, anche armati, seppure per interposti gruppi mercenari in Siria e Libia, l’intesa cordiale fra Turchia e Russia costituisce una realtà della politica internazionale. Sconvolgerla sarà difficile.
I legami mercantili fra i due Paesi sono solidi, importazioni ed esportazioni vanno a gonfie vele, coinvolgono gasdotti e centri turistici delle coste meridionali dell’Anatolia. Una presidenza Kılıçdaroğlu, con un Parlamento controllato dall’Akp pur a ranghi ridotti, mai rischierebbe la chiusura con Mosca e un blocco energetico interno. Rispetto al quadro del Sana söz caro al suo elettorato se il presidente del Chp diventerà presidente della Turchia, la promessa cui sembra dover rinunciare è la riforma per abolire il presidenzialismo e ricollocare il Parlamento alla base della democrazia interna.
Quella che l’opposizione di Sinistra, intellettuali, giornalisti colpiti dalla repressione governativa che li accusa di terrorismo filo kurdo e filo gülenista, ha o avrebbe calpestato. Per attuare tale riforma occorrono 400 voti oppure almeno 360 deputati che richiedano un referendum popolare. I numeri dell’opposizione nel nuovo Meclis sono 274, la maggioranza dovrebbe conoscere una consistente emorragia di suoi membri per consentire all’opposizione tale scelta. E dunque decine di Davutoğlu e Babacan che abbandonano la casa madre, attuando una riconversione anche di se stessi. Appare fantascientifico.
I due ex ministri hanno compiuto quel passo basandosi sulla popolarità e sulla posizione professionale, figure di secondo piano non ne avrebbero la forza. Certo, un elemento che balza agli occhi è la mancanza di svecchiamento dell’Akp e ancor più del Mhp, legati entrambi a leader che paiono inamovibili. Contenti entrambi di perdere collaboratori preziosi piuttosto che offrigli spazio e potere. In particolare il Partito della Giustizia e Sviluppo, sorto come struttura di servizio per il popolo minuto è diventato un apparato al servizio di gruppi d’interesse. Questo, se Erdoğan verrà riconfermato, può trasformarsi in una dannazione che allontana il consenso nazionale.
Foto © Iokesh Anand via Unsplash
Enrico Campofreda
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