di Roberto Bertoni Bernardi. Giornalista e scrittore
Il 1943, quando gli alleati sbarcarono in Sicilia, è stato uno degli anni più terribili della nostra storia. Senz’altro uno spartiacque, soprattutto per la generazione che all’epoca aveva vent’anni e fu costretta a compiere scelte che l’avrebbero segnata per il resto della vita.
Era ormai chiaro che la guerra fosse perduta. Era altrettanto chiaro che il Fascismo fosse stato sconfitto, dopo ventuno anni durante i quali aveva inflitto al Paese immani sofferenze. Era evidente che stessero sorgendo forme di opposizione, più o meno esplicite, che avrebbero innervato prima la Resistenza e poi il processo di ricostruzione democratica e civile del nostro Paese.
1943: UNO SPARTIACQUE
Quando gli alleati sbarcarono in Sicilia, nella notte fra il 9 e il 10 luglio del 1943, assistemmo pertanto a un fatto quasi naturale, diciamo alla ratifica di una condizione esistente che quest’episodio non fece altro che accelerare. Sull’eroismo dell’azione, dunque, è lecito nutrire più di un dubbio. L’appoggio della mafia, infatti, costituisce una verità storica accertata e non certo commendevole, specie se si considera quali siano state le conseguenze di un simile favore.
Ciò che è opportuno sottolineare, invece, è il precipitare degli eventi: il bombardamento di San Lorenzo, il Gran Consiglio del Fascismo che pose in minoranza Mussolini, l’arresto del Duce ordinato dal Re, la nomina a capo del governo conferita a Badoglio e l’Armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre e reso noto l’8 dello stesso mese. Sostanzialmente, possiamo parlare di una resa incondizionata, avendo di fatto perso la guerra ed essendo ridotti ai minimi termini, in un clima di sfacelo e disillusione, con le persone costrette a cercare il cibo alla borsa nera, i corredi da sposa venduti per ricavarne denaro e le sedie, più o meno preziose, spaccate per ricavare un minimo di legna con cui scaldarsi.
A ottant’anni di distanza, possiamo affermare che il 1943 sia stato uno degli anni più terribili della nostra storia, senz’altro uno spartiacque, soprattutto per la generazione che all’epoca aveva vent’anni e fu costretta a compiere scelte che l’avrebbero segnata per il resto della vita.
Non a caso, al netto delle proprie diversità, delle differenti strade intraprese, delle visioni politiche talvolta inconciliabili e degli scontri, anche aspri, che avrebbero caratterizzato ragazze e ragazzi di allora una volta diventati adulti, e magari giunti ai vertici del potere, c’era un filo rosso che li teneva uniti, una patria morale chiamata “Resistenza” e “lotta comune contro l’oppressione nazi-fascista” che rendeva possibile un confronto civile di idee e un’unità d’intenti nei momenti più drammatici che oggi sarebbero impensabili.
TRA LUCI E OMBRE
Quanto alla gratitudine, che senz’altro è giusto nutrire nei confronti delle truppe anglo-americane, questa non deve far passare in secondo piano i legittimi interessi dei rispettivi governi, nel contesto di una ridefinizione complessiva degli assetti globali che avrebbe portato, due anni dopo, a Jalta, alla definizione delle cosiddette “sfere di influenza”. Insomma, entrammo nell’orbita occidentale e, nel bene e nel male, non ne siamo più usciti, restando un Paese a sovranità sostanzialmente limitata e con tutta una serie di vincoli che ci hanno garantito alcuni indubbi vantaggi ma anche problemi atroci che ci portiamo dietro tuttora e che condizionano il nostro stare insieme.
Non a caso, la Sicilia, regione a statuto speciale, era e resta una terra splendida e disperata, con paesaggi mozzafiato e condizioni di vita difficili, un abbandono scolastico disperante e un intreccio di poteri loschi ed esecutori materiali di atti di barbarie che ne hanno condizionato in maniera devastante le possibilità di sviluppo.
Basti pensare al separatismo, sempre latente da quelle parti, alla violenza disumana nei confronti di sindacalisti come Accursio Miraglia e Placido Rizzotto, assassinati per le loro battaglie contro il latifondismo mafioso e lo strapotere di un’organizzazione criminale che aveva pesantemente rialzato la testa dopo l’arrivo degli Alleati, e ovviamente alla strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, volta a destabilizzare l’isola e a condizionarne il voto in vista delle Politiche dell’anno successivo. Personaggi come Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta, entrambi uccisi in condizioni quanto meno sospette, dopo aver compiuto quello che potremmo definire “lavoro sporco”, non sono casuali.
Sono figli del clima che si respirava all’epoca a quelle latitudini, in un crescendo di ferocia, intimidazione e, più che mai, sottomissione della cittadinanza a interessi che non hanno nulla a che spartire con la politica e con la convivenza civile. Per tutti questi motivi, al netto della retorica che troppo spesso ha condizionato il racconto dell’approdo delle truppe alleate in Italia, sarebbe opportuno riflettere sulle conseguenze. E farlo non in maniera sguaiata o complottista ma seguendo la traccia del grande Leonardo Sciascia, un radicale, un profondo conoscitore della sua terra ma, soprattutto, un uomo libero e propenso alla critica sociale, senza infingimenti e senza fare sconti a nessuno.
Bisognerebbe riflettere su cosa sia rimasto, ottant’anni dopo, nella nostra società, su come essa sia cambiata e su quale sia oggi il rapporto delle persone con un fenomeno criminale che per troppo tempo è stato negato o, comunque, minimizzato, almeno fino alle bombe di Capaci e via D’Amelio che hanno costretto chiunque ad aprire gli occhi e a fare i conti con la realtà.
Non c’è dubbio che lo sbarco degli Alleati in Sicilia abbia contribuito a mutare il corso della guerra e che liberarsi del Fascismo e della sua abiezione sia stato un fatto positivo. Non c’è dubbio, tuttavia, che l’evento non possa essere raccontato sempre in maniera favolistica, senza comprenderne le ragioni, le modalità e le implicazioni.
Non è negando la storia che può crescere la coscienza critica della collettività. E noi di coscienza critica ne abbiamo bisogno, così come abbiamo bisogno di ricordare, spiegare, raccontare, analizzare i fatti in maniera “laica” e renderci conto che sì, siamo stati liberati dalla barbarie di un regime tirannico che per troppo tempo abbiamo alimentato, accettato e persino osannato ma che il seguito non è stato interamente positivo, specie se si considera la propensione camaleontica di alcuni protagonisti della nostra vita pubblica.
Dire grazie agli Alleati, in conclusione, non significa ignorare le denunce del già menzionato Sciascia, di Vittorini, di Danilo Dolci e di tutti coloro cui non bastava una libertà di facciata ma la volevano assoluta, all’insegna della pace, del benessere diffuso, dello sviluppo autonomo e alla portata di chiunque; insomma, una democrazia compiuta e matura. Ciò che dovremmo essere, ciò che ancora non siamo.
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Roberto Bertoni Bernardi
Giornalista e scrittore