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Una storia di stragi dimenticate

di Roberto Bertoni Bernardi

di Roberto Bertoni Bernardi. Giornalista e scrittore

Con l’arresto di Matteo Messina Denaro si è conclusa la stagione della mafia stragista, feroce esecutrice di scelte provenienti dall’alto sulle quali non è mai stata fatta piena luce.

Con l’arresto di Matteo Messina Denaro si è conclusa la stagione della mafia stragista. Non è stata sconfitta la mafia, come ha sostenuto qualcuno con un ottimismo alquanto strumentale; di sicuro, tuttavia, si è chiusa una fase storica.

Il boss di Castelvetrano appartiene, infatti, agli anni di Riina, a uno dei periodi più bui della nostra storia recente. Siamo nel biennio delle stragi, con la politica ridotta ai minimi termini, un quadro internazionale mutato in via definitiva dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, la ridefinizione dei partiti e la scelta del sistema elettorale maggioritario. Siamo, insomma, agli albori di quella che pomposamente viene chiamata Seconda Repubblica, nata non da un cambio effettivo della Costituzione ma da una sua mutazione di fatto, il che ha reso piuttosto accidentato il percorso dell’ultimo trentennio.

Alla Seconda Repubblica, non a caso, è mancata un’anima: un’assenza che ha drammaticamente condotto al degrado delle istituzioni. In effetti, se mettiamo insieme i cinquantantasette giorni che separano Capaci da Via D’Amelio, preceduti dall’omicidio di Salvo Lima, luogotenente andreottiano in Sicilia, con le bombe dell’anno successivo, si compone davanti ai nostri occhi un quadro di sfacelo. In quel periodo, era quasi saltato lo Stato. Non c’era un solo elemento che fosse a posto. I conti pubblici, tanto per fare un esempio, erano disastrati, al punto che Amato, all’epoca presidente del Consiglio, fu costretto a varare il famoso prelievo forzoso retroattivo sui conti correnti e poi una Finanziaria da quasi centomila miliardi di lire, indispensabile per garantire la tenuta economica del Paese.

Uno dei protagonisti di quella fase fu, senza dubbio, Mario Draghi – all’epoca direttore generale del Tesoro e membro del comitato di presidenza dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) –, con annesso piano di privatizzazione del patrimonio pubblico e dismissione di tutta una serie di aziende di Stato che costituivano l’ossatura della Nazione.

Erano, poi, gli anni di Tangentopoli e dei processi mediatici, con i giudici del pool di Mani Pulite trasformati in divi, i muri delle città pieni di scritte a loro sostegno, le udienze trasmesse in televisione, la classe politica alla sbarra, le monetine lanciate contro Craxi davanti all’hotel Raphaël e l’ingenua speranza della Sinistra post-comunista di poter arrivare finalmente al potere, a quasi mezzo secolo dalla cacciata degasperiana del ’47. Una speranza rafforzata, qualche mese dopo, dalla vittoria del Centrosinistra nelle principali città italiane: un’illusione che lo portò a non comprendere ciò che stava accadendo nelle polverose stanze di un potere oscuro ma determinato a muoversi per impedire una mutazione, diremmo quasi genetica, del Paese. Se non lo si inserisce nel contesto, nazionale e internazionale, di quegli anni, Berlusconi non lo si può comprendere.

ANNI DI SANGUE

E quegli anni coincidono pure con il sangue: quello di via dei Georgofili a Firenze e di via Palestro a Milano, quello delle bombe a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro a Roma e quello che per fortuna non venne versato. In quei mesi, difatti, ci furono anche i falliti attentati ai danni di Maurizio Costanzo in via Fauro, ai Parioli, e dei Carabinieri allo stadio Olimpico, il 23 gennaio 1994, tre giorni prima della “discesa in campo” del Cavaliere. 

Un potere fragile, insomma. Il primo capo del governo non eletto in Parlamento, Ciampi per l’appunto, la lira prossima alla bancarotta, l’abolizione delle baby pensioni volute da Rumor nel ’73, l’abbraccio senza remore del sistema capitalista, i dolorosi addii di Bertinotti e Ingrao al Pds, il crepuscolo dell’era occhettiana, gli albori del dualismo fra D’Alema e Veltroni che avrebbe segnato un’epoca ma, soprattutto, come ricordato, il berlusconismo arrembante nelle retrovie, destinato a palesarsi alla vigilia delle Amministrative di Roma, quando il Signor Fininvest dichiarò che nella capitale avrebbe votato per Fini, fondando in maniera insolita la coalizione che avrebbe caratterizzato la Destra per almeno un trentennio: è accaduto tutto in pochi mesi, in un crescendo rossiniano di desolazione e spaesamento collettivo.

Come sempre avviene in questi casi, le colpe ricaddero quasi per intero su Occhetto, ritenuto responsabile, nel marzo del ’94, della disfatta elettorale di una Sinistra che aveva sbagliato complessivamente l’analisi storica e, sostanzialmente, costretto ad abbandonare la scena. La sua unica responsabilità, se vogliamo essere sinceri, fu quella di non aver stipulato l’alleanza col Patto per l’Italia di Segni e Martinazzoli prima delle elezioni (a dire il vero, non c’erano le condizioni politiche), pensando di potersi accordare dopo in Parlamento, magari affidandosi alla saggezza e al prestigio di Ciampi per la guida del Paese. Quello fu il suo tragico errore, non altri. Per il resto, prevalsero il cinismo e la sete di potere dei baroni rampanti dell’epoca e quella
vis rottamatoria che da allora si è impadronita della Sinistra fino a diventarne il male oscuro, in una tendenza al cupio dissolvi che è giunta fino ai giorni nostri. 

UNA STORIA OSCURA

La mafia stragista, pertanto, è stata una feroce esecutrice di scelte provenienti dall’alto sulle quali non è mai stata fatta piena luce. Lo stesso arresto di Riina, il 15 gennaio del ’93, reca con sé non pochi sospetti per modalità e tempistiche. Forse dovranno passare ancora parecchi anni prima che se ne sappia di più, che qualcuno ci sveli i dettagli inconfessabili della trattativa Stato-mafia e i nomi dei burattinai che hanno fatto il bello e il cattivo tempo alle spalle di un’Italia costretta ad assistere a un teatro dell’assurdo che ha minato in maniera irreparabile la fiducia della collettività nella politica. Da quel momento in poi, ci siamo giocati i diritti sociali, siamo stati meno liberi di esprimerci, abbiamo avuto un’informazione sempre peggiore, abbiamo assistito a un imbarbarimento del vivere civile che non si era mai verificato dal dopoguerra e, aspetto ancora più triste, ci siamo impoveriti. Per dirla con l’ultimo, disperato Moro che scriveva ai vertici della Democrazia Cristiana dal covo delle Br: «Il mio sangue ricadrà su di voi». Ecco, tutto quel sangue è ricaduto su di noi e non si è ancora seccato. 

Pochi giorni prima di morire, a soli nove anni in via dei Georgofili, Nadia Nencioni aveva scritto una poesia intitolata Tramonto. Recita così: «Il pomeriggio se ne va / il tramonto si avvicina / un momento stupendo / Il sole sta andando via (a letto) / È già sera tutto è finito». Tramonto, in suo onore, è anche il nome dell’operazione che ha portato all’arresto di Messina Denaro. In quei versi è racchiusa una premonizione atroce, il senso di una vita mai vissuta, l’amarezza per ciò che avremmo potuto essere e, invece, non siamo stati.

Foto © La porta dei Giganti di Andrea Buglisi via Wikimedia Commons

Roberto Bertoni Bernardi

Roberto Bertoni Bernardi

Giornalista e scrittore

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