di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista.
Figlio dell’anarchico basco Eugène- Bonaventure de Vigo – noto come Miguel Almereyda – Jean Vigo (1905-1934) con pochissimi film è è stato in grado di entrare nel mito e diventare fonte d’ispirazione di più generazioni di giovani registi di tutto il mondo.
Ho il piccolo merito di aver fatto pubblicare molti anni fa nell’Universale economica Feltrinelli e di aver fatto riprendere di recente dalla generosa Cue Press di Imola, una biografia di Jean Vigo, il regista francese di origine spagnola morto a solo 29 anni di tisi nel 1934.
Biografia scritta dal brasiliano Paulo Emilio Sales Gomes quando viveva a Parigi, molti anni prima che fondasse a Sao Paulo una cineteca che sostenne ostinatamente il cinema novo degli anni Sessanta e Settanta, e i film di alcuni degni giovani eredi di Vigo come Glauber Rocha, Ruy Guerra e altri.
Vigo era figlio di un anarchico morto in carcere in circostanze misteriose, e non ebbe un’infanzia felice ma trovò il suo riscatto nell’amore per il cinema, cui dette due documentari intorno al ’30, su un campione di nuoto e soprattutto su Nizza – quest’ultimo uno spietato ritratto di una borghesia non amabile – prima di esordire davvero con un “racconto” di puro cinema, Zero in condotta (1933), come il successivo lungometraggio L’Atalante (1934), è un capolavoro di rara intensità e libertà.
In Zero in condotta si mostravano i ragazzini sugli otto-dieci anni di un collegio (religioso) molto autoritario, che attraversano in riga un quartiere accompagnati da un giovane insegnante molto più vicino al loro desiderio di libertà che alle idee dei suoi superiori. Loro e il maestro si lasciano andare al desiderio di movimento, di “rompere le righe”, di sognare e cercare la libertà di un mondo davvero nuovo.
L’Atalante, unico film di durata normale e presentato in sala, mostrava invece i quattro abitanti di una chiatta che scende la Senna per lavoro: un vecchio, un ragazzino che fa il mozzo, un giovane e una giovane felicemente innamorati; una famiglia non regolamentare, infine, e in definitiva un’utopia semplice e possibile.
L’anarchismo di Vigo è evidente ma L’Atalante è anche e subito splendidamente accettabile in una visione cristiana e in una visione socialista del mondo come dovrebbe essere e non è. Una scena famosa è quella (non proprio realistica) dei due giovani innamorati che si inseguono e ritrovano nuotando sott’acqua nella Senna – molto usata anni fa dalla nostra tv in Fuori orario, una felice trasmissione di cinema ideata da Enrico Ghezzi. Ma quella certamente più nota è la giocosa battaglia a colpi di cuscini dei bambini di Zero in condotta nel dormitorio, un inno a una rivolta semplice e possibile, al bisogno di libertà dell’infanzia.
Solo due film ha potuto dirigere il giovane anarchico Vigo, indispensabile e amatissimo mito di più generazioni di giovani registi di tutto il mondo ma, si direbbe, non più oggi; quei due film bastano – vicini e superiori a quelli di un suo prolifico coetaneo venuto anche lui dalla grande stagione delle avanguardie “tra le due guerre”, Luis Buñuel, che negli stessi anni diresse Un cane andaluso e L’età dell’oro capolavori surrealisti – a render ragione del suo talento e, soprattutto, della necessità di utopia che dovrebbe ancora abitare i nostri sogni, le nostre speranze.
Vigo e Buñuel veneravano un altro poeta eternamente giovane, Arthur Rimbaud, loro maestro, o meglio loro fratello. Che diceva, come più tardi una sua convinta seguace, Elsa Morante, che solo i “ragazzini” possono “salvare il mondo”. E potrebbero ancora farlo, se non si lasciassero addormentare, almeno dalle nostre parti, da consumismo e narcisismo.
Illustrazione © Doriano Strologo

Goffredo Fofi
Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista.