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Teologia e Sinodo o Teologia del Sinodo

di Giancarla Codrignani

di Giancarla Codrignani. Giornalista, scrittrice e già parlamentare.

La chiamata di papa Francesco a “camminare insieme”, partendo dal basso voleva essere un invito ai teologi a ripensare metodi e contenuti di un rinnovamento ormai urgente anche a prescindere dal sinodo. Ciononostante, la Chiesa cattolica continua a non dare prova di grande coraggio e si rileva un certo “pericolo dell’indietrismo”.

Una premessa: la chiamata di papa Francesco a “camminare insieme” – espressione che traduce la parola greca synodos e così fu interpretata dal card. Pellegrino nella pastorale piemontese del 1972 – chiedeva a partire dal basso. Le risposte, ma soprattutto le domande, i dubbi, le eresie – del “popolo di Dio” avrebbero dovuto invitare i teologi a ripensare metodi e contenuti di un rinnovamento ormai urgente anche a prescindere dal sinodo. I battezzati, infatti, cioè il basso, sono così ignoranti delle cose di Chiesa (e più ancora di quelle di Dio) e così adeguati alle abitudini del sacro che si percepisce la fatica che fanno se, come è stato sotto la spinta del papa, dovevano cercare di ritrovare l’autenticità del vangelo come base per il nuovo “impegno sinodale”. Purtroppo ancora una volta mediato dall’anch’essa malcerta autorità clericale, paradossalmente contraddittoria con un sinodo organizzato attraverso le solite strutture, parrocchie, diocesi, clero non sempre aggiornato e poco “laico”. Per questo Francesco si era premurato di invitare ad assumere il ministero della teologia con fedeltà creativa alla tradizione, opportunamente sottolineando il “pericolo dell’indietrismo”. Infatti il teologo è uno che, per mestiere, si arrischia ad andare “oltre” e se ci saranno limiti sarà il magistero a fermare (ahimè, come sempre, anche se non si può accettare il caos). Per fortuna oggi anche la teologia può farsi multidisciplinare e la storia, la filosofia, la sociologia, l’antropologia non sono più suppellettile profana, ma preziosi strumenti di lavoro.

“NON ADDETTI AI LAVORI”

Sono consapevole di intervenire su un terreno che non mi appartiene per competenza, ma ritengo che si debbano esprimere anche i laici non accademici e perfino donne in virtù del diritto dei battezzati; anche perché ormai tutti, anche “in alto”, dicono (o, tacendo, non dicono) di tutto. La teologia contemporanea, infatti, non aiuta: dalla conferma delle regole tridentine alla seduzione dell’ateismo l’abbondante saggistica religiosa non risulta sempre memorabile, a dimostrazione che Francesco aveva ragione nel chiedere aiuto al popolo dei non addetti, che, forse, hanno voglia di teologia. 

Forse Francesco è arrivato troppo tardi: avendo i teologi trascurato per anni lo scavo della miniera conciliare (perché il Vaticano II era pastorale e non dogmatico?), il tempo ha consegnato al silenzio gli scritti preziosi dei padri che, contestati allora dalla curia vaticana, avevano anticipato il coraggio di Giovanni XXIII: Marie-Dominique Chenu, Karl Rahner, Edward Schillebeeckx, Yves Congar, Walter Kasper….Per questo mi deludono i teologi che evitano la via diretta per affrontare in radice i problemi che intrigano chi fatica a confessare “verità” in-credibili. Per esempio, Vito Mancuso, quando definisce il sacrificio di Isacco (Genesi 22) «un modello di fede che io non tollero» e «un’obbedienza senza criterio», perché evita di affrontare il problema di fondo: davvero la Bibbia è parola di Dio così, alla lettera? Metterla in discussione non dovrebbe offendere neppure un ebreo ortodosso: la Bibbia non è, ma nemmeno il sacro Corano, fatta di tavole di pietra: il senso lo acquista se viene letta e, poi, la generazione successiva la rilegge con altra sensibilità. D’altra parte, sul “sacro” dovremmo fare qualche distinzione: non sempre è il santo o il divino. 

SCIENZA VS. FEDE

Le scienze hanno sempre inquietato il pensiero dogmatico, ma anche le apparentemente diverse superstizioni: perfino i no-vax e i no-green rispondono per fede alle loro presunte teorie, ricusando il metodo dello scienziato che non si contenta se non “dimostra con prove” la sua tesi, che, una volta convalidata, resta solo un gradino in più, in attesa di ulteriori sviluppi. Per la Chiesa cattolica, lasciando perdere i classici antichi aprioristicamente e inesorabilmente “pagani”, il primo vero trauma nei confronti dell’argomentazione autonoma della scienza è stato il caso Galileo Galilei.

L’errore di quella condanna è stato corretto nel 1992: l’anno prossimo saranno passati 390 anni, quasi quattro secoli, durante i quali per il Vaticano, nonostante il lavoro diuturno della specola vaticana, la Terra non girava intorno al Sole. Il cardinale Roberto Bellarmino, uomo di punta della Controriforma (lo chiamavano il martello degli eretici) che si era occupato della revisione della Vulgata, da ecclesiastico austero e pieno di buone intenzioni si rese responsabile delle condanne di Giordano Bruno e di Galileo Galilei. Il primo, filosofo, mantenne la coerenza e la libertà della coscienza e accettò il rogo; Galilei, scienziato, abiurò. La filosofia infatti si gioca sui principi e se il potere imbavaglia un libero testimone di verità, solo lo scandalo della morte può ridargli la voce annichilita dalla condanna. La scienza invece “sa” di avere dimostrato con prove e aspetta il riconoscimento che, quando che sia, è sicuro. Oggi fortunatamente la teologia sa di leggere i segni dei tempi in un’epoca di trasformazione radicale e deve superare sia l’eredità postuma dell’idealismo, sia l’urgenza di avere, di fronte alla formulazione di assolutamente nuove proposte, una nuova visione per non pronunciare sentenze su casi dubbi se mal interpretati. 

È la scienza che oggi pone le domande a filosofi e teologi, ignari che le loro scuole di pensiero possono restare ideologiche: perfino il libro della natura interpretata dal livello attuale delle scienze non collima con le Scritture tramandate come “parola di Dio”. Allo stato, o si segue il creazionismo veterodogmatico o ci si riconosce eretici, senza paura di un sant’uffizio che non potrà tornare a giudizi impropri perché darebbe un colpo mortale all’istituzione. Urge, dunque, ripensare come leggere, tradurre e interpretare quella Parola, che resta Parola, anche se il suo linguaggio va ascoltato secondo l’intellegibilità del linguaggio: non solo la si stampa nelle diverse lingue, la si deve rendere anche intellegibile dai lettori nel tempo. La grandezza di Dio, per chi ha fede, non è quella descritta da un retore: se tornasse Cicerone e parlasse italiano (appreso dal tablet) scarterebbe le vetuste traduzioni umanistiche del de natura deorum. Ovviamente non è solo questione linguistica: prima bisogna accettare un dio che non vuole più essere autore dei “salmi delle maledizioni”, se mai l’avesse voluto. Aspettiamo l’IA? Testo “naturale”, testo “artificiale”? Anche il mondo “naturale” non è più lo stesso e la crisi ambientale dimostra che dovremo prendere provvedimenti efficaci non per la conservazione della natura “di una volta”, ma a misura delle trasformazioni di un sistema produttivo di sfruttamento non più solo del lavoro, ma del suolo (come leggere il “dominare la terra” della traduzione biblica) delle cui carenze sappiamo da almeno cinquant’anni.

RITORNO AL CREAZIONISMO

Ci sono domande che riconducono al creazionismo, termine insostituibile per i tradizionalisti. Il nome di Darwin è ancora demoniaco per i conservatori che, per coerenza, dovrebbero vietare ai cattolici la visita di un museo antropologico. Se si ragiona senza problemi delle ere geologiche, non ha senso bloccarsi quando si passa alla comparsa dell’uomo e all’antropologia. Infatti, anche per i credenti la creazione “diviene” e, prima di respingerla, bisogna andare a fondo sull’ormai storica incompatibilità con l’evoluzionismo. La scienza si è espressa, la teologia no: se i problemi relativi ai primi capitoli della Genesi, il card. Ravasi li riduce a “eziologia metastorica di taglio sapienziale” [cfr. Il Sole 24 Ore del 28 agosto 2022], la Chiesa non dà prova di grande coraggio: le dissolvenze non aiutano a dirimere la questione. Il prof. Louis Caruana dell’università Gregoriana ha sostenuto la ricerca di un suo giovane allievo, Luca Di Gioia, che ha pubblicato la sua tesi di laurea: Evil, Theodicy and Evolutionary Theory. Old arguments facing new data. Luca Di Gioia ha preso le mosse dalle dottrine classiche sul male, la giustificazione e il piano della salvezza. Da Giobbe a Epicuro, a sant’Agostino e a san Tomaso (che non dicono le stesse cose sulla natura) passa in rassegna le teorie classiche e le sottopone ad una critica semplicemente innovativa per il credente laico, forse persuasiva anche per un conservatore.

Il male non ha bisogno di un “peccato originale”: le sofferenze, la morte e, appunto, il male hanno motivazioni umane, sociali e storiche: Dio c’entra perché stanno nel piano della salvezza. Per la nostra umana percezione, sperimentiamo fattualmente solo l’assenza del bene. Il darwinismo non si occupa di Dio: fornisce un’indagine sui meccanismi dell’evoluzione in natura liberando la continuità genetica delle forme di vita, della loro continuità e selezione, supportate dalla paleontologia e dalla paleogenetica come ipotesi di lavoro sulla natura che impariamo a conoscere meglio. Il dibattito in corso sulle tipologie della sessualità sta a dimostrare la schematicità di un passato in cui l’uomo era il dominatore dell’ambiente e della famiglia umana (comprensiva di quella privata con il capofamiglia che tiene in secondo piano la donna e dà il nome ai figli) – che famiglia “maschio e femmina”, come in una delle versioni di Genesi – da sempre accogliente (il principe bastardo sale al trono se muore il “legittimo”) o repressiva nei confronti di chi disturba gli stereotipi inveterati. Se c’è molto da ragionare, anche – forse soprattutto – teoricamente, la teologia cristiano-cattolica non può evitare di ripensare, alla luce del pensiero, anche etico, la dottrina che ha oppresso il significato complesso dell’amore, a partire da quello del prossimo, che non va irreggimentato in tipologie predeterminate, ma nella diversità rispettosa del posto di ciascuno in ordine alla salvezza. La ricerca multidisciplinare libera produce analisi meno parziali e realizza convergenze di visioni complementari e comuni.

TEOLOGIA E SINODALITÀ

Tutto questo ha a che vedere con il Sinodo? Percepito dal basso, certamente sì. Infatti mentre la Chiesa chiede di essere aiutata, tutti i think tank vaticani sembrano voler impegnare la teologia solo quel tanto che consente di non fare brutta figura. A fine aprile l’Università Gregoriana ha dedicato tre giorni all’approfondimento: La teologia alla prova della sinodalità. L’introduzione del cardinale Mario Grech, senza entrare né nella filosofia né nel metodo del lungo convegno, partendo dal dato pratico dell’innovazione-Sinodo, ha rievocato il motu proprio del 1965 Apostolica sollicitudo che prevedeva un’istituzione ecclesiastica centrale dell’intero Episcopato cattolico stabile, ma attivo in modo occasionale. Non conoscendo i contenuti del Convegno sono certa che i singoli contributi di idee saranno stati vari e di livello, ma non si tratta di costruire una piattaforma organizzativa e neppure di prevedere l’esercizio della collegialità come “soggetto di piena e universale potestà su tutta la Chiesa”, anche se l’ha detto Lumen Gentium.

Giusto invece proporre che «Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare è più che sentire». Fin ai nostri giorni molti vescovi ritenevano che l’ascolto dovesse essere quello dello Spirito, non l’ascolto del Popolo di Dio che definiscono re, sacerdote, profeta: vanno ascoltate anche le opinioni dal basso, con tutte le possibili sbandate. La voce dello Spirito non crea spontaneamente l’unità di fede dei suoi individui: forse vuole che i teologi aiutino i liturgisti a rinnovarsi. La sinodalità, che deriva direttamente dal Vaticano II, è un dono di Dio, una conversatio in Spiritu sancto, può diventare universale. Ma i teologi pensino – e pensino alto – al credente moderno normale. Non possono lasciarlo ripetere argomenti che costituiscono i discorsi dei Consigli pastorali: debbono portare i risultati dei loro laboratori di studio per evitare che un clero ancora arretrato (e per questo tradizionalista viva male l’impoverimento della parrocchia e sia impedisca di seguire l’invito alla gioia. Sono la prima a non sapere che cosa proporre, per giunta in tempi difficili. Ma sento – da non accademica – che tacere è una via di comodo e mi manca il supporto di una teologia che “senta” che siamo a un punto cruciale e manca il tempo di dare senso a “voler” trasformare la propria Chiesa. Il coraggio non può tenere il freno a mano tirato. Tutte le religioni sono in crisi.

Foto © David Jackson via Unsplash

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Giancarla Codrignani

Giornalista, scrittrice e già parlamentare

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