di Matthias Canapini. Fotoreporter e scrittore
Per i migranti che transitano sulla “Rotta balcanica”, l’Albania rappresenta un punto di transito pressoché inevitabile. E se la maggioranza di loro cerca un “passaggio a Nord”, alcuni di loro hanno iniziato a presentare domanda di asilo nel Paese dell’aquila bicipite.
Le zolle farinose dei terreni agricoli bevono senza riserve: è il primo vero giorno di pioggia dopo un mese di siccità. A Tirana, ad aspettarmi in un cortiletto in via Rruga Don Bosco trovo Ariela Mitri, responsabile Caritas per il settore del traffico di esseri umani e delle migrazioni. Piglio risoluto, italiano perfetto, accoglienza materna: «La rotta balcanica è battuta giornalmente. Anziché passare in Macedonia deviano verso Nord-Ovest. Il fronte d’ingresso è l’Albania meridionale, quello di uscita l’Albania settentrionale. Chi non tenta la strada impervia delle montagne kosovare si concentra nella zona di Scutari, a nord. Sarà perché il ricordo del nostro esodo è ancora fresco, sarà perché abbiamo vissuto in prima linea la guerra in Kosovo, ma in merito ai migranti l’Albania non soffre le pressioni dell’opinione pubblica. Siamo più propensi alla solidarietà. I poliziotti stessi, in frontiera, si rendono utili pulendo i gabinetti o condividendo del cibo coi clandestini. Se ne parla poco, ma l’aiuto è tanto. Abbiamo stanziato soldi per gestire e innovare le strutture d’accoglienza, poiché la Caritas c’era al tempo del regime di Hoxha, c’era durante la guerra civile e c’è ancora oggi, in un momento epocale in cui l’altro è nostro fratello. Qualche famiglia comincia pure a fermarsi; nonostante le difficoltà socioeconomiche, ipotizza di costruirsi una nuova vita a Tirana, Valona o altrove. Nel 2017, secondo l’ultimo report pubblicato dalla Commissione, in Albania hanno presentato domanda di asilo politico 309 migranti, dato in leggera crescita rispetto all’anno precedente».
A SCUTARI
Bucando sventagliate di grecale, in serata siamo già a Scutari. All’orizzonte, maestose si ergono antiche montagne innevate, culla primigenia del Kanun, il Codice dell’Onore di Lekё Dukagjini. La Panda 4×4 di Christian, operatore dallo sguardo fiero e un abbozzo raro di sorriso, borbotta davanti al cancello del Villaggio della Pace, una ventina di bungalow accoglienti che fungono da foresteria. Pini neri e pini d’Aleppo dominano il lago, il quartiere rom sottostante, la moschea immacolata. «Questo centro d’accoglienza, un tempo abitato dai rifugiati kosovari, oggi ospita afgani, siriani, iracheni. Lo ha allestito la Caritas negli anni Novanta, io ero appena nato. – racconta Christian, mentre nella fioca luce della luna serpeggia tra le baracche – So che le ultime famiglie in transito sono partite cinque giorni fa, erano state fermate a pochi chilometri da Scutari. Alcuni, nonostante le brochure che gli vengono consegnate dalla polizia, non chiedono asilo; altri, più favorevoli, devono eventualmente attendere nei centri temporanei a Tirana, che sono due. La Caritas organizza il trasferimento dei richiedenti asilo, nutre e conforta tutti gli altri». A colazione conosco la prima comunità di passaggio, composta da dieci adulti e due bambini. «Grecia no good. Ho trascorso sei mesi in carcere. I poliziotti mi hanno lasciato addosso solo le scarpe e un mucchio di cartacce incomprensibili. Siamo partiti da Korçë giorni fa, ma siamo stati beccati e identificati nei pressi di Scutari. Domani mattina verremo trasferiti a Tirana, dove chiederemo l’asilo politico» dichiara Alì, cresciuto tra Baghdad e Falluja. «Ma la nostra meta finale è la Germania» irrompe Mustafà, ex muratore, bicipiti stretti da una felpa attillata. Il resto della comitiva sorride, visibilmente rilassata, felice dell’ospitalità. Nessun altro parla inglese; procediamo a tentoni, smorfie, piccole cortesie come porgere un barattolo di marmellata alle prugne.
IL CONFINE
Alla dogana di Hani i Hotit, valico di frontiera tra Albania e Montenegro, qualcosa non quadra: a un ragazzo curdo con passaporto tedesco viene intimato di fare dietrofront. Come funghi morti nascono dai terreni circostanti le cupole grigie dei bunker dittatoriali. Settecentocinquantamila per l’esattezza, costruiti durante la Guerra Fredda e sparpagliati in tutta quanta l’Albania per volere di Enver Hoxha, che ha governato il paese dal 1944 al 1985. Alcuni sono abitati da edere e rifiuti, riempiti dalle feci delle pecore.
«I migranti si dirigono a Nord, sempre a Nord, seguendo i binari della ferrovia dismessa o in senso inverso i pali della luce elettrica che collegano Podgorica a Tirana. Vedi lassù, quelle mulattiere polverose? Corrono sugli altopiani anche se la possibilità di essere presi è molto più alta. Per fortuna la polizia locale non si comporta malamente, ci avvisa e noi interveniamo. In estate i sentieri sono pieni di tracce, è facile vederli arrampicarsi e scomparire tra i cespugli. È impossibile però dimenticare le loro storie. A volte basta davvero alzare la testa per scoprire uomini anziché numeri» ammette Cristian, fissando un cane mutilato che cerca pane. «In paese opera Padre Adrian. Ogni tanto si ritrova giovani e famiglie dormire sul sagrato della chiesa. Non possiamo voltarci dall’altra parte. I Balcani sono uno scolapasta, le rotte incontenibili». Il grande lago è rotto a intermittenza dai balzi delle trote che, dopo aver spiccato il volo, lasciano cerchi concentrici a morire sulla superficie. «Quando qualcuno viene avvistato prova a scappare. È normale, istintivo, anche io lo farei. È importante capire che camminano da soli, da giorni, in un paese straniero. Proviamo a calmarli e rispettarli come faremmo con noi stessi» confida Gramos, doganiere a Krystallopigi, estrema propaggine sud-orientale d’Albania. «Nel centro d’accoglienza temporaneo per migranti in transito disponiamo di qualche brandina, un cucinotto, un’ulteriore baracca esterna per arginare i flussi estivi, che arrivano a contare ottanta persone giornaliere. Quando fermiamo i migranti, di passaggio sui tanti sentieri che tagliano le colline, chiudiamo un occhio e avvisiamo Aida, l’operatrice Caritas che vive a Bilisht, frazione del comune di Devoll, a nove chilometri da qui. Anziché lasciarli in dogana, Aida si prende cura di loro ospitandoli in una parrocchia. In quanto clandestini è costretta comunque a chiuderli a chiave in camera o al primo piano dell’edificio, ma sempre meglio che lasciarli in un gabbiottino in mezzo al nulla».
MIGRANTI DI IERI E DI OGGI
Intercetto la signora Aida, la stessa descritta da Gramos, nello spigolo di via Sefedin Gora, a Bilisht. La morsa dell’inverno addenta ancora le casette di questo paesino marginale, che conta tremila abitanti. «Vivo di relazioni e fede profonda. Ricordo una famiglia irachena andarsene via con le lacrime agli occhi per l’ospitalità ricevuta a Bilisht. Il figlio più piccolo, di tre mesi soltanto, aveva contratto una brutta polmonite attraversando le montagne di notte. Malgrado la procedura lo vieti, ho insistito personalmente per portare il piccolo e la madre all’ospedale di Korçë. Andavo a trovare entrambi tutti i giorni, mentre il compagno e gli altri due figli della donna venivano coccolati da Altin, mio marito. Sappiamo cosa significa emigrare e stringere i denti per sopravvivere».
Schivando cacche bovine e polli ruspanti raggiungiamo un altopiano brullo solcato da ruscelli: un pezzetto d’Irlanda trapiantato nel cuore dei Balcani. Un carretto governato da nessuno, si muove lento in un canovaccio di cisterne d’acqua e bambini pastori. «Quando è caduta la dittatura comunista sono emigrato in Grecia. Sono stato trattato come un animale e preso in giro e non voglio che accada anche ai ragazzi che passano di qua. Fino a trent’anni fa questo altopiano era bandito e impenetrabile, circondato da guardie armate, filo spinato, ma anche da alberi da frutto rigogliosi. Per decenni abbiamo vissuto fuori dal mondo e finalmente nel 1990-1991 i muri hanno cominciato a cedere. È scoppiato un esodo incontenibile, dopo anni di miserie. Il cibo scarseggiava, se avevi più del dovuto venivi accusato di essere una spia. Si lavorava unicamente per lo Stato che aveva privatizzato tutto quanto. C’erano anche dei lati positivi durante il regime di Hoxha, ossia l’assenza totale di prostituzione e traffici di droga; le scuole e gli ospedali funzionavano ed erano gratuiti, a discapito però della libertà del popolo albanese. Ecco perché capisco bene i migranti di oggi. Abbiamo già vissuto tutto, parlare in pubblico di politica o avere un parente all’estero era un marchio, un motivo valido per essere spedito in qualche campo di rieducazione in mezzo alle montagne».
IN FUGA DALLO YARMOUK
A riscaldarci dal cappotto gelido dell’equinozio sono gli occhi neri e luminescenti di Yeda, ventiquattro anni, seduta sul bordo del letto a massaggiarsi i piedi doloranti. L’alloggio fornito della Caritas è scarno ma confortevole: un letto a castello, una stufetta, un tavolino scompigliato su cui giacciono confezioni di yogurt, tre mele, il biberon di Jood (sei mesi) che assieme al padre Mohamed compone il resto della famigliola. «Vivevamo nel campo profughi di Yarmouk, un distretto di Damasco popolato da palestinesi. Frequentavo un corso in Storia dell’Arte ed ero contenta della mia vita, nonostante le bombe e il cibo freddo. Sarei potuta anche rimanere in Siria poiché la mia famiglia appoggiava politicamente Bashar al-Assad. Non avrei avuto troppi problemi ma nel 2014 ho deciso di andarmene per ricongiungermi a mio marito. Mohamed era un poliziotto… Un giorno gli hanno ordinato di sopprimere le rivolte e sparare contro la propria gente… Lui si è rifiutato ed è scappato in Turchia in quanto disertore. Già nel 2012 aveva rischiato la pelle. Mentre dormiva un bomba ha centrato il loro appartamento, uccidendo tre suoi amici e ferendo lui gravemente. Mohamed bruciava come una torcia accesa. Grazie a Dio alcuni passanti l’hanno soccorso gettandogli addosso una coperta per soffocare le fiamme. In ospedale, oltre agli interventi chirurgici, gli hanno inserito delle placche in titanio nel petto e nel braccio destro».
La pelle del giovane, sbottonatosi su richiesta di Yeda, appare raggrinzita, come un tessuto ovino riscaldato alla brace. Dalle ascelle alle orecchie, l’epidermide incartapecorita reca gli sfregi neri del fuoco, le bozze dei capillari scoppiati. Mentre parliamo, rammento che Yarmouk non esiste quasi più: dei centottantamila residenti che vivevano tra le vie strette del campo, simbolo della diaspora palestinese e per decenni roccaforte del movimento di resistenza, non ne restano che seimila. «Agli orrori della guerra si sono aggiunte le violenze di Daesh. Mancava cibo, acqua potabile, medicine. I cadaveri, gonfi come palloni, erano veicoli per infezioni e malattie. Per denutrizione ho perso mia figlia… Nove mesi di vita. – continua Yeda, anticipando una domanda forse banale che mi era balenata in testa, come se l’età potesse cambiare il senso della morte di un figlio – A Idlib cadevano colpi di mortaio giorno e notte. Quel martedì che ho superato illegalmente il confine turco-siriano, un’autobomba ha ucciso tredici persone di cui tre bambini. Tanta sofferenza per poter riabbracciare Mohamed. Abbiamo vissuto quattro anni in Turchia, risparmiando soldi per il viaggio. Sono rimasta incinta mentre progettavamo nei dettagli la partenza per le isole greche».
Il gommone su cui viaggiava la coppia, al terzo urto delle onde indiavolate, si è rovesciato come un guscio di noce, sparpagliando in mare cinquantaquattro esseri umani. Scoprirono all’istante che i giubbotti di salvataggio erano fasulli, imbottiti di spugna e carta straccia. «Avevamo pagato ben 1.200 euro anziché 600 per quei salvagenti, fidandoci del trafficante che prometteva di vendere solo prodotti di alta qualità. Abbiamo pagato di più semplicemente perché temevamo la morte; ma il tratto di mare era breve e la Guardia Costiera ci ha salvato. Nell’ospedaletto da campo dell’isola di Chios è nato nostro figlio Jood. Dopo il parto abbiamo raggiunto Atene a bordo di un traghetto e, da lì, dritti verso l’Albania. Ieri l’altro, anziché un’ora, abbiamo impiegato quindici ore per raggiungere il confine albanese. Ci siamo persi sulle montagne, il Gps non è servito. Due ragazzi che camminavano trecento metri più avanti sono stati respinti. Ho pregato i poliziotti di farli passare, ma la procedura non lo permette. Ora prendiamo fiato e pensiamo all’avvenire. Nutro mio figlio con del latte in polvere, ma lo sento debole. Avrebbe bisogno di vitamina D, vaccini, ricostituenti. Ogni volta che lo guardo mi domando che futuro potremo dargli in Europa». Aida piange lacrime silenziose guardando i comignoli fumanti fuori dalla finestra. Non sembrano neppure lacrime, forse piombi che rigano le guance e lasciano scie rossastre.
Foto © Matthias Canapini
Matthias Canapini
Fotoreporter e scrittore