di Ludovico Basili. Ambientalista
Meglio conosciute come CoP, le Conferenze delle parti sono riunioni dei Paesi che hanno ratificato convenzioni delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e sulla biodiversità. Ma se molte sono le “buone intenzioni”, rimane ancora molto il lavoro da fare.
Correva l’anno 1992 quando a Rio De Janeiro i rappresentanti di 172 Paesi, tra cui 108 capi di stato, s’incontrano nell’ambito della Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, conosciuta anche come il Summit della Terra o Eco92. Alla Conferenza parteciparono 2.400 rappresentanti di organizzazioni non governative che tennero anche un Forum parallelo al quale parteciparono 17.000 persone. Al termine della Conferenza delle Nazioni Unite furono adottati cinque documenti fondamentali.
Tra gli altri, ricordiamo la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e la Convenzione sulla diversità biologica che, entrata in vigore il 29 dicembre 1993, ha tre obiettivi principali: la conservazione della diversità biologica, l’uso sostenibile dei componenti della stessa, la giusta ed equa condivisione dei benefici delle risorse naturali. Meglio conosciute come Cop, le Conferenze delle parti sono riunioni dei Paesi che hanno ratificato tali convenzioni e trattano di temi solo apparentemente distanti e hanno cadenze diverse, la prima è annuale la seconda è biennale.
HABITAT E CLIMATE CHANGE
La biodiversità può sostenere gli sforzi per ridurre gli effetti negativi del cambiamento climatico. Habitat naturali integri possono rimuovere il biossido di carbonio dall’atmosfera o ridurre gli impatti disastrosi di un cambiamento climatico come inondazioni e tempeste. Le foreste sono il secondo più grande serbatoio di carbonio dopo gli oceani e assorbono circa 1/3 delle emissioni di CO2 causate dall’uomo. Trattengono 861 miliardi di tonnellate di carbonio e ogni anno assorbono circa un terzo delle emissioni antropiche di anidride carbonica, evitandone l’accumulo in atmosfera che producono anche ossigeno e regolano il regime delle piogge.
Le 36 miliardi di tonnellate di CO2 immesse ogni anno nell’atmosfera a causa delle attività umane, hanno ad oggi portato all’aumento di circa 1,1°C della temperatura media globale e, a conti fatti, non sarà possibile limitare il riscaldamento globale a +1,5 °C entro metà del secolo – come previsto dall’Accordo sul clima di Parigi – senza preservare la capacità delle foreste e di altri ecosistemi naturali, come le savane e le zone umide, di assorbire ingenti quantità di CO2 dall’atmosfera. Ma le stiamo letteralmente “mangiando” le nostre grandi alleate nella lotta alla crisi climatica, fino al punto che la foresta amazzonica può emettere più anidride carbonica di quanta ne assorbe.
Secondo uno studio pubblicato da Nature [la rivista di riferimento della comunità scientifica internazionale], la foresta amazzonica che con i suoi alberi e piante, ha assorbito circa un quarto di tutte le emissioni da combustibili fossili dal 1960: oggi, a causa della deforestazione, della siccità, degli incendi appiccati per liberare il terreno in favore degli allevamenti intensivi e dei campi di soia, produce più emissioni di quelle che può assorbire. Gli alberi sono costituiti per circa il 20% del proprio peso da carbonio, parte della CO2 assorbita dalle foreste tramite la fotosintesi viene riemessa in atmosfera quando gli alberi vengono tagliati.
In questo modo, da essere parte della soluzione le foreste diventano parte del problema: solo la deforestazione rappresenta la seconda fonte umana di CO2, con ben 8 miliardi di tonnellate di CO2 emesse ogni anno dal 2000 ad oggi, periodo in cui è stato perso ben il 10% della superficie forestale mondiale. Lo studio è stato pubblicato sul finire del 2021. Lo studio si è basato sull’utilizzo di piccoli aerei per misurare i livelli di CO2 sopra la foresta amazzonica fino a 4.500 metri di altezza nell’ultimo decennio.
LE “BUONE INTENZIONI” DELLA COP15
Secondo gli organizzatori, la Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità (CoP 15) – che si è tenuta a Montréal dal 7 al 19 dicembre scorso – si è conclusa con un accordo storico per proteggere il 30% delle terre, delle aree costiere e marine e delle acque interne del pianeta entro la fine del decennio, anche noto come Piano 30×30. Al momento risultano come “aree” protette il 17% delle terre e l’8% dei mari.
Achim Steiner, a capo dell’United Nations Development Programme (Unpd) ha dichiarato: «Questo accordo significa che le persone di tutto il mondo possono sperare in progressi reali per arrestare la perdita di biodiversità e proteggere e ripristinare le nostre terre e i nostri mari in un modo che salvaguardi il nostro pianeta e rispetti i diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali. La biodiversità è interconnessa, intrecciata e indivisibile con la vita umana sulla Terra. Le nostre società e le nostre economie dipendono da ecosistemi sani e funzionanti. Non c’è sviluppo sostenibile senza biodiversità. Non può esserci clima stabile senza biodiversità. Possiamo scegliere se preservare o meno la natura, perché la cruda verità è che oggi non lo facciamo. L’accordo rappresenterà un momento storico e se si compiranno tutte le azioni concordate per tracciare la rotta di un futuro fiorente su un pianeta sano che non lasci indietro nessuno». Ma siamo ancora alle buone intenzioni.
IL TRADIMENTO DEI POPOLI INDIGENI
Di altro parere Survival International (survival.it), il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, che sostiene che in realtà «l’accordo non è riuscito a proteggere la biodiversità e potrebbe tradire i popoli indigeni». Questa organizzazione, insieme ai popoli indigeni e altre Ong, ha lottato per impedire che il target del 30% diventasse “il più grande accaparramento di terra della storia” sostenuto dalle “forze più potenti del mondo”, dai governi del Nord globale e dall’“industria della conservazione”.
«Non siamo riusciti a fermare l’adozione del target, tuttavia abbiamo giocato un ruolo importante nel farlo diventare la parte più controversa nella definizione del Quadro globale per la biodiversità, dimostrando che la “conservazione forzata” – ovvero lo sfratto dei popoli indigeni e le violazioni dei diritti umani compiuti nel nome della protezione della natura – non potrà più essere tollerata come danno collaterale degli sforzi di protezione ambientale. E questa battaglia l’abbiamo vinta insieme alle organizzazioni indigene. L’obiettivo del 30% adottato non fa riferimento a una categoria di aree “rigidamete protette”, generalmente le aree indigene da saccheggiare, come inizialmente proposto, e cita il riconoscimento e il rispetto dei diritti dei popoli indigeni. Si tratta di una netta differenza. Purtroppo, però, anche se nel linguaggio è stato fatto un passo in avanti nella lotta per fermare gli abusi compiuti nel nome della conservazione, restiamo ancora molto lontani da un reale cambiamento di quel modello di conservazione che solo nel continente africano ha portato allo sfratto di almeno 14 milioni di persone dalle loro terre. L’International Indigenous Forum on Biodiversity (Iifb) ha chiesto che i territori indigeni rientrassero nel calcolo del raggiungimento del target del 30% ma la sua richiesta è stata respinta, principalmente dai Paesi europei, nonostante numerose prove dimostrino che i popoli indigeni proteggono le loro terre meglio di chiunque altro e che i loro territori dovrebbero essere uno strumento cruciale nella protezione della biodiversità. Abbiamo avuto così l’ennesima conferma che, nella conservazione, la mentalità coloniale secondo cui gli “ambientalisti” occidentali “sanno ciò che è meglio” è sempre viva e vegeta».
Foto © Marcos Paulo Prado via Unsplash

Ludovico Basili
Ambientalista