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Centri di permanenza per il rimpatrio: a cosa servono?

by Mariangela Di Marco

di Mariangela Di Marco. Giornalista

Dallo scorso aprile, il governo di Giorgia Meloni ha indetto per sei mesi lo stato di emergenza per la gestione dei flussi migratori di cui i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) sono un ingranaggio fondamentale.

Dallo scorso aprile, il governo di Giorgia Meloni ha indetto per sei mesi lo stato di emergenza per la gestione dei flussi migratori, stanziando immediatamente 5 milioni di euro a cui si aggiungeranno altre risorse che serviranno a creare nuovi centri di accoglienza e soprattutto i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Ne sono previsti uno per ogni regione, che si andranno ad aggiungere ai nove già attivi: Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Ponte Galeria (Roma), Caltanissetta, Trapani, Bari, Brindisi Restinco, Palazzo San Gervasio (Potenza) e Macomer (Nuoro) con una capienza complessiva pari a 1105 posti, come attesta l’ultimo rapporto dell’organizzazione Coalizione italiana Libertà e Diritti civili (Cild).

A COSA SERVONO I CPR

All’interno dei Cpr sono detenute esclusivamente persone straniere prive di un regolare permesso di soggiorno, ristrette solo per una violazione di una regola amministrativa che riguarda l’ingresso e il soggiorno sul territorio nazionale, in strutture che spesso risultano di gran lunga peggiori degli istituti penitenziari. La privazione della libertà personale dunque non è giustificata dalla violazione di una norma penale, ovvero l’aver commesso un reato, ma dal non essere in possesso di un permesso di soggiorno valido. Per giunta applicata senza processo giudiziale, per ragioni di sicurezza, di controllo dell’immigrazione, come da tempo denuncia l’Associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione, ponendo forti interrogativi sulla sua legittimità. Con una paradossale conseguenza: ai trattenuti non viene garantito neanche il rispetto di quei diritti e di quelle garanzie proprie del sistema penale. Luoghi che non hanno alcuna utilità poiché, a differenza di altre strutture detentive, non avviano percorsi finalizzati all’inclusione della persona che, giunta al termine della sua detenzione, è irregolare quanto lo era in precedenza, generando un circolo vizioso che genera ancora più irregolarità, vista l’inefficacia della politica dei rimpatri.

Da marzo 2023 è stata chiusa la struttura di Torino (capienza 144 posti), a seguito delle proteste dei detenuti contro le condizioni di detenzione, che hanno reso la struttura del tutto inagibile. Uno degli aspetti più gravi di questi luoghi istituzionali sono proprio le condizioni di detenzione: dalla verifica  dell’idoneità sanitaria al trattenimento che viene svolta da medici interni del Cpr e non da medici della Asl prima dell’ingresso, come prevede il Regolamento emanato dal ministero dell’Interno nel 2014, alla detenzione di persone tossicodipendenti ed affetti da problemi psichiatrici, con un abuso nella somministrazione di psicofarmaci e numerosi casi di autolesionismo, passando per l’assistenza legale e sanitaria di scarso livello, per l’inadeguatezza delle strutture con critiche forme di sovraffollamento e servizi igienici non separati dai luoghi di pernottamento e privi di porte, fino alla privazione dei telefoni cellulari, benché gli art.14 e 20 del Testo Unico dell’Immigrazione prevedano il diritto alla libertà di comunicazione anche telefonica con l’esterno.

Questo non solo ha reso inaccessibili le strutture agli enti di tutela delle persone straniere – che si sono rivolti al Tar il quale ne ha ribadito il diritto all’accesso – ma ha portato ad altrettante gravi conseguenze, alcune con grande risonanza mediatica. Si ricorderanno, per esempio, le proteste del 2013 di una decina di uomini trattenuti all’interno dell’allora Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione, oggi Cpr) di Ponte Galeria che decisero di cucirsi la bocca e di smettere di nutrirsi: le condizioni di detenzione, il limbo nel quale erano piombati, l’assenza di qualsiasi contatto umano non erano più sostenibili. O, nel 2021, il suicidio di Moussa Balde, giovane guineano detenuto nel Cpr di Torino, rinchiuso senza alcuna valutazione preliminare sulla sua idoneità psichica al trattenimento e morto nel cosiddetto “ospedaletto”. In seguito alla sua morte, è partita un’indagine da parte della Procura di Torino, chiusa nel maggio 2023, dove si parla di una gestione impropria del Cpr.

LA PRIVATIZZAZIONE DI UN SISTEMA

Altro aspetto messo in luce dal rapporto di Cild L’affare Cpr. Il profitto sulla pelle delle persone migranti è come si sia arrivati a consentire che su quella privazione della libertà personale qualcuno possa trarne profitto con una graduale privatizzazione del sistema della detenzione amministrativa, distinta in tre fasi. Tra il 1998 e il 2007, gli allora Centri di permanenza temporanea e assistenza (nel tempo hanno cambiato denominazione, ma le problematiche sono sempre rimaste le stesse) sono gestiti dalla Croce rossa italiana, ente pubblico che venne criticato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta De Mistura a seguito di ispezioni: condizioni igienico-sanitarie non soddisfacenti, detenzione di migranti fortemente vulnerabili (vittime di tratta e di grave forma di sfruttamento nel lavoro, minori, richiedenti asilo, malati e tossicodipendenti), inadeguatezza dei servizi di assistenza sanitaria, legali e di informazione normativa. 

Con il governo Berlusconi IV, i costi di gestione dei ridenominati Cie sono minimizzati e ai bandi di gara partecipano cooperative che propongono offerte più vantaggiose, aggiudicandosi così gli appalti. Una stagione ben rappresentata dal Consorzio Connecting People Onlus che ottiene la gestione della maggior parte dei Cie: Gradisca d’Isonzo, Brindisi, Palazzo San Gervasio e Bari. Nel giro di pochi anni la Croce Rossa viene quindi estromessa e al marzo 2014 gestisce solo Torino. Le criticità intanto si acuiscono, le proteste dei detenuti sono sempre più aspre e iniziano ad esserci le prime inchieste delle Procure sulla mala gestione con alcune importanti pronunce dei Tribunali che ne accertano le situazioni inumane.

Il 2014 è l’anno delle società e delle grandi multinazionali che in tutta Europa gestiscono Centri di trattenimento e servizi ausiliari all’interno delle carceri.  A rappresentare al meglio questa tendenza è la multinazionale Gepsa che ottiene quasi il monopolio dei Cie allora esistenti: Roma, Milano, Torino. Poi è la volta della multinazionale elvetica Ors che si aggiudica Macomer, Roma e Torino. Società e multinazionali che vincono gli appalti con «modalità aggressive, ossia proponendo importanti ribassi sui prezzi a base delle aste con il rischio di gravi violazioni dei diritti fondamentali delle persone trattenute – si legge nel rapporto –. Basti pensare che nei Cpr anche il servizio di assistenza sanitaria è oggetto di una vera e propria extraterritorialità, essendo affidato non al Servizio sanitario nazionale, come avviene con gli istituti penitenziari, ma all’ente gestore».

Nel periodo 2021-23, spiega l’organizzazione Cild, le Prefetture competenti hanno bandito gare d’appalto per un costo complessivo di circa 56 milioni di euro. Fa dunque riflettere il recente stato di emergenza indetto dal governo Meloni perché, come spiega lo storico del Consiglio Nazionale delle Ricerche Michele Colucci in Storia dell’immigrazione straniera in Italia (Carocci editore, 2018), è stato adottato per la prima volta nel 1997 con gli sbarchi degli albanesi in Puglia, l’ultima nel 2011 con il governo Berlusconi per gestire gli arrivi straordinari dal Nord Africa in seguito alle Primavere arabe ed è servito per mettere in mano alle prefetture la costruzione dei centri e la loro gestione, liberando tutte le gare di appalto dalle norme e dalle procedure. Da qui ne sono nate diverse inchieste giudiziarie, la più famosa è Mafia Capitale.

Foto © Engin Akyun via Unsplash

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Mariangela Di Marco

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