Così la Lombardia è diventata la locomotiva italiana dello sfruttamento agro-alimentare - Confronti
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Così la Lombardia è diventata la locomotiva italiana dello sfruttamento agro-alimentare

by Gaetano De Monte

di Gaetano De Monte. Giornalista

Un recente rapporto dell’associazione Terra! rivela dati e storie e del caporalato al Nord, con qualche sorpresa. Sotto la lente dei ricercatori sono finite le filiere di produzione dell’insalata in busta, delle piante di meloni e della trasformazione delle carni di origine suina.

È la locomotiva d’Italia, la regione che detiene il maggior fatturato in termini di valore della produzione agro-alimentare, con quasi 14 miliardi di euro, ma la Lombardia è anche una delle regioni italiane in cui negli ultimi anni ci sono stati più procedimenti giudiziari con al centro il reato di caporalato. A riferirlo, sono le 70 pagine del rapporto Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia, recentemente pubblicato

e curato dai ricercatori dell’associazione Terra! 

LAVORO GRIGIO

L’indagine ha preso in esame tre filiere produttive, nello specifico: quella della carne, delle insalate in busta, la cosiddetta “quarta gamma” e, infine, quella del melone, produzioni che proprio in Lombardia hanno il proprio centro nevralgico. In evidenza è emersa la pratica del “grigio”, già largamente utilizzata nel mondo agricolo del Sud Italia.

Si scopre così che lo sfruttamento dei braccianti è un fenomeno di cui il Nord non è esente, anzi, e consiste nel segnare un numero inferiore di giornate rispetto a quelle realmente lavorate. Secondo i ricercatori, «nel caso della filiera del melone, il lavoro grigio è la piaga». E ancora, spiegano che si basa su un tacito e spesso obbligato accordo tra il lavoratore e l’imprenditore agricolo, in base al quale il bracciante si assicura un lavoro continuativo, ma il datore di lavoro non registra mai più di 180 giornate all’anno, cioè il numero necessario per accedere alla disoccupazione agricola. Accade così che il datore di lavoro paga meno tasse e, allo stesso tempo, costringe il lavoratore in una condizione di subalternità. Tradotto, ciò significa che alla fine dell’anno il salario complessivo di chi è impiegato in campagna, in tantissimi casi, dal Nord al Sud, è il prodotto di tre fattori: le giornate segnate in busta paga, la quota in denaro (eventualmente) data in nero dall’impresa e la disoccupazione agricola percepita nel periodo di assenza dal lavoro.

SFUMATURE DI NERO

È la stessa storia lavorativa vissuta da Devansh (nome di fantasia per proteggerne l’identità) che è stata raccolta dal sindacalista Silvio Rosati del Si Cobas. L’uomo ha raccontato di aver lavorato diversi anni in una piccola azienda, raccogliendo meloni con un contratto di venti ore alla settimana, sulla carta. Nella realtà, invece, il bracciante ne lavorava cinquanta, più del doppio rispetto a quanto pattuito. Così un giorno ha deciso di denunciare, cambiare vita, e chiudere con quel capitolo della sua esistenza in cui le fatiche del mondo agricolo costituiscono, ormai, oggi, un retaggio del passato. Il “grigio” è un modello che contiene diverse sfumature, come ha spiegato ai ricercatori di Terra! il sindacalista della Flai Cgil di Mantova, Ivan Papazzoni: «Il fenomeno è ancora altamente diffuso dalle nostre parti. Questo vale per tutte le colture, nonostante la tendenza generale delle aziende, ad oggi, sia quella di mettersi in regola».

In pratica, il sistema funziona così: spesso i lavoratori sono costretti a restituire in contanti parte del salario ricevuto subito dopo aver ricevuto il versamento dello stipendio da parte del datore di lavoro; sulla carta, dunque, tutto avviene secondo il rispetto degli standard contrattuali, nella realtà dei fatti, invece, a farla da padrone è la dimensione dello sfruttamento attuato attraverso pratiche che ricordano quelle diffuse nelle campagne del Sud Italia. 

FINTE COOP

Uno sfruttamento che si tinge, però, spesso anche di nero. Come certificano le numerose ispezioni effettuate negli ultimi anni dall’Ispettorato territoriale del lavoro di Mantova e di cui si parla nel report: «nel corso dei controlli avvenuti nel 2022, l’ente ha radiografato la situazione di diciannove attività agricole produttrici di melone. Otto di queste sono risultate anomale. Su 110 braccianti individuati, infatti, 44 non avevano un contratto», si legge.

E ancora, secondo le testimonianze dei braccianti raccolte, ha preso piede una sorta di caporalato legalizzato, che funziona grazie alla presenza di “cooperative senza terra” capeggiate in gran parte da cittadini stranieri, indiani, marocchini, moldavi, che intercettano e siglano contratti di lavoro già in patria con i loro connazionali che, una volta arrivati in Italia, saranno assunti da queste finte cooperative che concretizzano il proprio guadagno sulla disperazione dei braccianti. Come? Le coop prendono dalle aziende agricole i lavori da effettuare, nel mondo agricolo, ma anche nell’edilizia, e, in cambio, offrono la propria disponibilità di manodopera, ad un salario di piazza che è quasi la metà di quello previsto dalla legge, pari a cinque euro l’ora, al posto dei 9 euro e 44 centesimi stabiliti dalle norme. Questo accade nella raccolta dei meloni.  

IV GAMMA

«Andando avanti con l’età, abbiamo sviluppato delle malattie professionali che interessano la parte superiore del corpo: la colonna vertebrale, le spalle, le mani e i gomiti», ha raccontato Alessia all’associazione Terra! La donna ha lavorato per oltre 20 anni all’interno di quella che può essere considerata la catena di montaggio dell’industria agro-alimentare, la così detta IV gamma. Qui, tra le valli al confine tra le province di Bergamo e Brescia i prodotti della IV gamma sono una prerogativa del territorio. Secondo i ricercatori sono presenti circa 500 aziende agricole che producono insalate, rucola, ortaggi di ogni tipo, imballati e imbustati da destinare alla grande distribuzione. E circa un centinaio, in tutta la Lombardia, sono gli stabilimenti destinati alla trasformazione dei prodotti. Anche queste imprese hanno esternalizzato con il tempo la propria manodopera, affidandosi ad agenzie per il lavoro, cooperative e srl, le quali subappaltano ad altre società. E come effetto si è esteso «l’orario lavorativo, si comprimono i salari e si aumentano a dismisura i ritmi, creando un bacino di operai con meno tutele, a cui attingere», denuncia Sergio Caprini, sindacalista di Slai Cobas Sc. 

PIÙ MAIALI CHE ESSERI UMANI

«In provincia di Brescia ci sono più maiali che esseri umani», riferiscono questa frase – i ricercatori – per sottolineare un dato di realtà che «racconta di una regione, la Lombardia, che ospita il 50% dei capi suini presenti su tutto il suolo nazionale, oltre 4 milioni di animali stipati in 6.7471 allevamenti».

Il giro d’affari è pari a qualche miliardo di euro l’anno e comprende una filiera estremamente parcellizzata, che va dagli allevamenti ai salumifici, ma dove gli strumenti utilizzati sono identici a quelli delle aziende agricole di meloni; anche nel caso della filiera suinicola, infatti, buona parte del lavoro viene esternalizzato alle cooperative in cui gli operai che vi sono assunti all’interno ottengono paghe molto più basse e godono di tutele minori, a volte perfino inesistenti, rispetto ai loro colleghi dipendenti diretti delle aziende. È la competizione al ribasso e, nella Lombardia locomotiva d’Italia del settore agro-alimentare, è uno dei tratti d’impresa caratteristici, insieme allo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, in maggioranza stranieri.  

Foto © Tim Mossholder via Unsplash

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Gaetano De Monte

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