di Grammenos Mastrojeni. . Intervista a cura di Claudio Paravati. Direttore Confronti.
Per limitare le conseguenze catastrofiche che il cambiamento climatico avrà sul Pianeta e sui suoi abitanti, è necessario adottare uno stile di vita più “sostenibile”. Una scelta inevitabile anche per le imprese, per le quali la transizione al green rappresenta la strada più conveniente e competitiva.
Grammenos Mastrojeni è un diplomatico italiano, coordinatore per l’eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Attento osservatore dei cambiamenti climatici del Pianeta, in un articolo pubblicato nel 1994 sull’interconnessione fra ambiente e stabilità sociale anticipava di ben tre anni il primo allarme ufficiale emerso nel 1997 con il Rapporto Geo-1 curato dal Programma delle Nazioni unite per l’ambiente. Ha insegnato Soluzione dei conflitti e materie ambientali in Italia e all’estero e nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato una cattedra su “ambiente, risorse e geo-strategia”, il primo insegnamento attivato da un’università sulla questione. Collabora con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo L’arca di Noè. Per salvarci tutti insieme (Chiarelettere, 2014); Effetto serra, effetto guerra. Il clima impazzito, le ondate migratorie, i conflitti. Il riscaldamento globale, i ricchi, i poveri (Chiarelettere, 2017) e Effetti farfalla (Chiarelettere, 2021) in cui si analizza come nostri comportamenti, i gesti più semplici che facciamo ogni giorno, non sono solo gocce nell’oceano ma eventi decisivi per noi, per il nostro benessere e la nostra felicità, e per l’equilibrio dell’intero Pianeta.
Il cambiamento climatico è reale o no?
È assolutamente reale, al di là dei dati scientifici, ormai è entrato nell’esperienza di tutti quanti.Nel senso che se ancora cinque anni fa si poteva desumere soltanto mettendo assieme i dati, oggi vediamo che c’è una costante variazione dei punti fermi che avevamo rispetto al clima, alle stagioni, alle temperature, alle piogge. Mi pare che sia un fatto non smentibile. L’altra questione che ogni tanto viene fuori è il dubbio che sia provocato dall’uomo o se sia un’oscillazione naturale. È sicuramente provocato dall’uomo. Ci sono delle coincidenze, assolutamente incontrovertibili, fra la quantità di emissioni e l’andamento delle temperature.
Perché allora c’è una parte di opinione pubblica che sostiene che non sia vero? Tocca degli interessi troppo forti?
No, in realtà non credo. L’età del negazionismo, ispirato a ragioni economiche, è sostanzialmente passata. Perché l’impresa ha capito che il sostenibile non è una truffa. Non è la necessità di introdurre dei costi che poi deprimono la produttività e la competitività, al contrario: il sostenibile in realtà dà le ali alla competitività dell’impresa. C’è voluto un po’ ma è stato capito. Oggi sopravvive un po’ di questo atteggiamento, ma è più legato a dei personalismi di stampo politico o mediatico. Tutto sommato è una cosa salutare perché non c’è niente di peggio dell’unanimismo per entrare nella sonnolenza e nell’inerzia. Credo che sia molto più pericolosa l’indifferenza del negazionismo, perché è quella sensazione diffusa che ci fa dire: «Non mi riguarda, è troppo grande per me. Cosa ci posso fare io?» a impantanarci, a non farci fare progressi.
Cosa ne pensa del fenomeno del greenwashing, ovvero di quella strategia di comunicazione di certe imprese finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale?
È abbastanza noto che meno dell’1% del pubblico compia scelte di consumo e di voto ispirate al “bene comune”. Di solito non si vota per il candidato che “fa bene” al proprio Paese, si vota per il candidato che “difende la propria categoria”, e non si compra l’oggetto che “difende il Pianeta”, si compra l’oggetto che ci dà l’impressione di una “buona relazione qualità prezzo”. Se poi c’è dentro una dose di lavoro minorile, in fondo non ci importa assolutamente nulla. Allora perché fare greenwashing? Per spostare una porzione di mercato che tutto sommato è quella che si concentra nei negozi di commercio equo e solidale? Non ne vale la pena, soprattutto, perché l’“immagine green” non sposta i consumatori, mentre al contrario farsi trovare a “barare” con il greenwashing ha un prezzo di immagine molto alto. Questo le imprese lo sanno. Magari stanno andando avanti un po’ a tentoni, cercando di cavalcare la “moda green”, il che fa parte della fisiologia del mercato, ma la transizione anche da parte delle aziende avverrà soprattutto perché, come dicevo prima, si è capito che il sostenibile conviene. Pensiamo al fatto che la porzione di investimenti sostenibili dei grandi portafogli è passata da meno dell’1% all’inizio del Secolo all’attuale 26/27%, e che c’è la dichiarata intenzione di farla diventare entro pochissimo tempo (quattro o cinque anni), il 60%. Non sappiamo se i vari Warren Buffett [imprenditore, economista e filantropo statunitense, soprannominato “oracolo di Omaha” per la sua abilità di previsione negli investimenti finanziari] pensano anche loro che hanno dei figli e che dunque è per questi che devono salvare il Pianeta. Quello che è certo è che si è capito che il sostenibile crea competitività.
Le disuguaglianze saranno destinate ad aumentare? Magari con i ricchi che saranno nella possibilità di vivere in aree più salubri e i poveri costretti ad adattarsi.
A qualcuno magari piacerebbe, però è strutturalmente impossibile. Facciamo parte di un sistema interconnesso e se anche si potesse costruire una “torre d’Avorio” a casa propria, non pensando a ciò che accade fuori, il caos che è fuori non rimarrebbe confinato: inevitabilmente finirebbe per colpire tutti. Abbiamo avuto una tentazione del genere in Europa, quando abbiamo lanciato quella bellissima iniziativa che si chiama Green Deal, molto avanzata ma che non poteva essere fatta solo all’interno dell’Europa sottraendo investimenti al di fuori. La consapevolezza del fatto che l’ecosistema, ma anche la società umana, sia completamente interconnessa, scardina l’idea che ci sia chi possa continuare a permettersi di vivere al sicuro dai problemi ambientali a discapito di altri.
In tempi passati se un popolo finiva le risorse cercava di appropriarsi, anche con la forza, di un altro territorio più idoneo. Cosa succederà nel futuro?
La questione non sta solo nel fatto che finisca una risorsa ma nel fatto che il problema si randomizza, diventa imprevedibile. Quindi, come abbiamo visto anche quest’anno, una grande siccità è seguita da eventi di precipitazioni estreme. Il problema è che non sappiamo più su quali cicli contare, non tanto che vadano in una direzione o nell’altra. Se sapessimo di andare con una certa costanza verso la siccità, anche se con fatica potremmo fare degli investimenti per adattare l’agricoltura a un futuro scenario di siccità. Solo che andiamo verso uno scenario in cui non sappiamo cosa succederà. Come fa l’agricoltore a seminare se si aspetta pioggia ma poi arrivano chicchi di grandine grandi come palle da tennis? Comunque ci saranno delle aree più colpite da questa disorganizzazione e aree meno colpite. In alcune proiezioni sul cambiamento climatico si prevede che alcune aree (come la Siberia o la Scandinavia) saranno interessate da una maggiore fertilità.
Ma quella che potrebbe sembrare un fortuna, non è detto che lo sia: perché diventare il polo d’arrivo di tutti quelli che hanno perso le fondamenta per vivere non è una gran fortuna, al contrario. Per questo ognuno farebbe bene a difendere il proprio territorio, ma soprattutto quello che è necessario è mettere assieme una politica di cooperazione globale. Se nessuno è al sicuro, è necessario mettere insieme le risorse. Facciamo un esempio: l’Europa vuole decarbonizzare al 2050 ma è perfettamente consapevole che non può farlo se non conta sul potenziale rinnovabile solare del Sud del Mediterraneo, o su quello eolico dei Balcani. L’agricoltura europea va verso terreni desertificati? Significa che i terreni del Sud Europa assomiglieranno a quelli del Nord Africa, che sono stati così per migliaia di anni. E chi ha il know how per gestire quei terreni? Chi ha il patrimonio fito-genetico per farli fruttare? Il cambiamento climatico, paradossalmente, potrebbe essere la più grossa opportunità di pace della storia, perché ci obbliga a pensare che riusciremo a risolvere le cose solo mettendo insieme le risorse. Se mettiamo insieme le risorse, quei discorsi economici che basavano tutto sulla competizione, non reggeranno più.
Parlando di risorse: la scomparsa dei ghiacciai sulle nostre Alpi e Appennini rappresenterà una ferita dolorosa per il nostro patrimonio.
Sarà una ferita molto dolorosa: le proiezioni ci dicono che entro la fine del secolo perderemo il 90% del volume e dell’estensione dei ghiacciai. Cosa significa? La nostra sicurezza idrica non dipende dalle piogge, perché quando arriva la pioggia violenta cade tanta acqua, ma va direttamente al mare. La nostra sicurezza idrica dipende dalle nebbie e dai ghiacciai che durante la stagione secca si sciolgono gradualmente e irrigano i nostri campi. E se a casa nostra questo rappresenta un grande problema, pensiamo a quando si scioglieranno i ghiacciai dell’Himalaya: tutto un sistema di approvvigionamento idrico, in un’area – peraltro già solcata da tensioni e con più di uno Stato che ha la bomba atomica – dove sono stanziate un miliardo e 400 milioni di persone, andrà in tilt.
Cosa si potrebbe fare se perdiamo il 90% dei ghiacciai? Desalinizzare l’acqua del mare?
La prima cosa che dobbiamo fare è capire che non possiamo andare avanti così e possiamo innescare dei cambiamenti attraverso il comportamento delle persone. Solo innescando uno “scenario di ragionevolezza” possiamo evitare la perdita del 90% dei ghiacciai. Già adesso la perdita è pari al 20/30%, cosa che non ci garantisce il ciclo idrico su cui avevamo strutturato la nostra produzione. Proprio per questo ci si può e ci si deve preparare, e lo si può fare in tanti modi. Quello sbagliato è pensare che la tecnologia possa continuare a farci avere lo stesso modello di vita che abbiamo avuto finora, il che creerebbe povertà e disuguaglianza. Quello giusto, per esempio in agricoltura, è quello che prevede un minore consumo d’acqua. Anche eliminando lo spreco alimentare noi diamo un colpo importante alla battaglia per il cambiamento climatico, che è molto più significativo dei risultati di qualunque CPp. Tantissimi di questi sprechi dipendono da usi superflui delle risorse che si rivelano nocivi.
Se si volesse fare qualcosa, cosa si potrebbe fare?
La prima constatazione è che dobbiamo smetterla di pensare che siccome è un problema grande lo devono risolvere i grandi, come il presidente delle Nazioni Unite. Io che ci lavoro, sono sicuro che le Nazioni Unite non possono fare nulla. I grandi, le Nazioni Unite possono fare trattati, leggi e provvedimenti fiscali che di per sé sono pezzi di carta. Diventano significativi se sono in grado di mettere in moto più facilmente gli unici che possono davvero cambiare qualcosa: le persone comuni. Una delle cose che più inibisce le persone è l’impressione di essere solo “gocce nell’oceano”, ma questo non è vero: il sistema moltiplica a dismisura l’impatto di ogni gesto che facciamo. Bisogna inoltre comprendere che ogni qualvolta si cerca il proprio vero benessere, si è per definizione “sostenibili”. È facile, infatti, dimostrare che – per fare un esempio – le scelte di trasporto che tutelano di più il proprio portafoglio, la propria salute, i propri ritmi di vita, la propria socializzazione, siano le più sostenibili. Si tratta, quindi, soltanto di capire dove risiede il nostro vero benessere.
E quindi la via è quella.
La via è quella, certo, la tecnologia ci può aiutare, ma non possiamo pensare che saranno le auto elettriche, o i pannelli solari a salvarci. Aumentando l’efficienza, al massimo possono rinviare nel tempo la soglia del tracollo, ma non non possono evitarla.
Foto © John Salvino

Grammenos Mastrojeni
Diplomatico, coordinatore per l’eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo