di Francesco Boscarol. Giornalista.
Gli aleviti, considerati una corrente dell’islam di derivazione sciita duodecimana originatasi nel XIII secolo in Anatolia dagli insegnamenti di Hajji Bektash Veli, rappresentano il secondo gruppo religioso della Turchia dopo i sunniti. Tra i principali sostenitori del secolarismo secondo il modello di Mustafa kemal “Atatürk”, sono stati spesso attaccati dagli islamisti sunniti e nazionalisti turchi di estrema destra. Con la vittoria del candidato alevita avversario del vincitore Erdoğan, Kemal Kılıçdaroğlu, alle elezioni la vita di questa minoranza così poco conosciuta sarebbe migliorata?
La sera del 12 maggio a Kadikoy, sulla sponda asiatica di Istanbul, si sta tenendo uno degli ultimi comizi del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) prima delle elezioni presidenziali turche del 14 maggio. Dal bus adibito a palco parcheggiato in riva al mare all’orizzonte si vede la moschea di Santa Sofia, e gli aspiranti parlamentari vicini a Erdoğan urlano alla folla: «Non lasceremo questo Paese in mano agli aleviti e ai cristiani! Ma continueremo a servirti. Non lasceremo nessuno ai margini, accoglieremo chiunque, senza guardare la lingua, la religione, il credo…». Vengono lanciati papaveri alla folla festante, a ogni partecipante viene distribuito un panino al formaggio e un succo di frutta. Alle ultime elezioni, una lotta all’ultimo seggio ha tenuto tutto il Paese della mezzaluna attaccato alla televisione per ore, e solo due settimane dopo ha visto il presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan trionfare sul candidato del Partito popolare repubblicano (Chp) Kemal Kilicdaroglu al ballottaggio.
IL TABÙ ALEVITA
Tre settimane prima, in piena campagna elettorale, il canale YouTube del Chp pubblica un video dal titolo Alevi: «cari ragazzi che voterete per la prima volta a queste elezioni, oggi vi parlerò di un tema veramente speciale e sensibile. Sono alevita, musulmano, cresciuto secondo i princìpi del profeta Ali. L’identità è ciò che ci rende quello che siamo», dice Kilicdaroglu con tono pacato. Il video, visualizzato più di 100 milioni di volte su Twitter, ha rotto un tabù ancora esistente nella società turca – parlare in modo positivo di alevismo – ed è stato visto come un inno alla tolleranza e all’accettazione. Dalla fondazione della Repubblica turca – di cui quest’anno ricorre il centenario, dato che il Trattato di Losanna è stato firmato il 24 luglio 1923 – la politica laicista e nazionalista iniziata dal partito del Chp, fondato da Mustafa Kemal, il “padre fondatore della Turchia moderna e per questo soprannominato “Atatürk” (padre dei turchi), ha colpito duramente i gruppi aleviti, come accadde durante la Ribellione di Dersim nel 1938 – messa in atto dopo l’entrata in vigore della cosiddetta Legge Tunceli del 1935 che prevedeva lo stazionamento di militari nella regione per esercitare maggiori influenza e controllo del governo centrale – in cui, secondo le stime ufficiali, l’esercito turco uccise circa 13.000 persone e ne deportò 11.000. Dunque la sconfitta elettorale lascia un dubbio: con la vittoria di Kilicdaroglu alle elezioni la vita di questa minoranza così poco conosciuta sarebbe migliorata?
A Uskudar, uno dei quartieri storici e più conservatori di Istanbul, un cimitero antichissimo sorge tra le abitazioni e i centri commerciali di recente costruzione. Alle sue porte, ai lati di una lunga discesa sul mare, si affacciano una casa di culto alevita, Karacaahmet Cemevi (cemevi in turco significa, appunto, “la casa di riunione”) e una moschea, Karacaahmet Camii (camii sta, invece, per “moschea”), talmente vicine che la presenza di un grande minareto porta i visitatori poco attenti a identificarle cone un’unica moschea. Il dede [letteralmente “nonno”, ma è anche l’appellattivo che gli aleviti danno ai propri leader religiosi considerati discendenti diretti di Muhammad attraverso la figlia Fatima e il marito ‛Ali e tutte le mogli del Profeta] della Cemevi, Hidir Cenen, ci accoglie al suo interno offrendoci un cay, il tipico tè turco. Dopo una visita di cortesia alla tomba di Karacaahmet, compagno di battaglia di Hajji Bektash Veli, saliamo le scale che portano al luogo di culto, e dopo qualche minuto di conversazione le nostre parole vengono interrotte dai canti del vicino muezzin. «Dede, ma non ti dà fastidio questo suono?», «No, viviamo in pace», ci risponde, «non mi dà alcun fastidio che a fianco a noi ci sia la moschea. Ma mi piacerebbe che abbassassero un pochino il volume…».
CHI SONO GLI ALEVITI
Gli aleviti, considerati una corrente dell’islam di derivazione sciita duodecimana originatasi nel XIII secolo in Anatolia dagli insegnamenti di Hajji Bektash Veli, rappresentano il secondo gruppo religioso della Turchia dopo i sunniti – non esistono statistiche ufficiali – e circa il 20% della popolazione totale. L’alevismo nasce con i movimenti mistici dell’Anatolia del XIII secolo e si sviluppa alla fine del XV secolo, trovando devoti soprattutto tra i turcomanni, i curdi e gli zaza [un popolo della Turchia orientale che parla la lingua zazaki, spesso descritti dagli studiosi come “curdi zaza”]: condividono con gli sciiti convenzionali il culto di ‛Ali, il primo imam, cugino e genero di Muhammad, e i suoi undici successori, ma si differenziano da loro per gli insegnamenti esoterici vicini al sufismo e a diverse tradizioni mistiche pre-islamiche, e per la non osservanza di impegni formali nei confronti dell’Islam normativo [ad es.: non eseguono le abluzioni prima delle preghiere e non osservano il Ramadan]. Su questo punto i singoli individui possono assumere posizioni diverse, e sebbene vi siano grandi differenze tra i gruppi, la società alevita si contrappone allo stile di vita sunnita per l’insistenza su una gerarchia sacra in cui solo i dede sono leader religiosi e su una liturgia, il cem (“anima”), frequentata sia da uomini che da donne e quindi estranea alle regole di separazione dei sessi prescritte dalla Sharia. «Quando entri nella cemevi sei solo un’anima», afferma Cenen, «non importa se sei uomo o donna. Condividiamo i valori europei su questo tema». Quindi le donne possono diventare Dede? «No. Ma se una donna dovesse sposare un dede, sarebbe rispettata allo stesso livello del marito». Improvvisamente, il canto dei muezzin si placa.











IL DIBATTITO SULL’IDENTITÀ RELIGIOSA
Nonostante il nome Alevi fosse già stato usato almeno dagli anni ’80 del XIX secolo da alcuni gruppi Kızılbas (i “testa rossa”, dal colore del copricapo con dodici pieghe, che indossavano in ricordo dei dodici imam dello Sciismo), termine peggiorativo che implica devianza religiosa, moralità debole e sovversione politica, a codificare l’alevismo fu il secolarismo turco e la costruzione della nazione negli anni ‘20 e ‘30, che pose la religione sotto l’egemonia dello Stato turco. Il dibattito sull’identità religiosa degli aleviti turchi è iniziato alla fine degli anni ’80, quando gli aleviti avviarono una campagna per essere riconosciuti pubblicamente come tradizione culturale e religiosa distinta. I risultati “sono stati modesti”, come ci spiega in un caffè di Beyoglu il presidente della fondazione Avf (Alevi Vakiflari Federasyonu – Federazione delle Fondazioni Alevite), Haydar Baki Dogan: «Abbiamo ottenuto il diritto di usare il termine “Alevi” nel nome delle associazioni: a partire dagli anni ’90 sono state aperte centinaia di cemevi, case di culto alevite, sotto la denominazione di “centri culturali”: la legge turca non riconosce le cemevi come luoghi di culto». Sempre negli anni ’90, un numero sempre maggiore di persone ha iniziato a rivelare pubblicamente la propria identità, che aveva tenuto riservata per paura di stigmatizzazioni e ritorsioni.
Oggi tra gli aleviti turchi si possono riconoscere due tendenze ideologiche, ognuna rappresentata da una voce istituzionale chiave. Il primo gruppo, rappresentato dalla Federazione ombrello Avf, presenta l’alevismo come una tradizione religiosa contenuta nei confini dell’Islam e basata sulla sintesi delle culture anatoliche del passato. Avf ha un approccio conciliante nei confronti dell’autorità ufficiale ed è aperto al dialogo con il Diyanet – l’istituzione statale destinata all’amministrazione della religione – con l’obiettivo di ottenere una rappresentanza e una tutela dell’alevismo come tradizione islamica legittima accanto a quella sunnita. Più radicale e vicina a posizioni socialiste è invece la visione della Federazione Abf (Alevi-Bektaşi Federasyonu), che cerca un riconoscimento ufficiale da parte dello Stato turco chiedendo l’abolizione del Diyanet e sostenendo che la sua esistenza non rispetta i princìpi del secolarismo.
Ai tempi della fondazione della Repubblica turca, avvenuta nel 1923, regolamentare l’Islam significava mettere l’Islam ortodosso sotto il controllo dello Stato e nazionalizzarlo, stabilendo al contempo sistemi secolari di legge e di istruzione, distruggendo l’influenza e il potere degli ulema (teologi musulmani) all’interno dell’amministrazione statale, vietando gli ordini sufi non ortodossi e proibendo l’uso di discorsi, propaganda o organizzazioni religiose per scopi politici. Disillusi dal processo di islamizzazione reintrodotto dopo il 1950, gli aleviti considerano Atatürk come fondatore della nazione e protettore dalle persecuzioni religiose, l’uomo che li ha salvati dal dominio straniero, che ha rivelato l’illuminazione scientifica e la modernità a una popolazione riluttante, e che ha permesso alla civiltà anatolica e turca di riemergere dopo secoli di interpretazioni della storia dominate dagli arabi e dal Corano. Una lealtà che, come ci spiega Dogan, «si esprime ancora oggi nella disponibilità a essere arruolati nei corpi militari, nel rispetto dei funzionari pubblici e nella difesa del Paese contro le critiche». Gli aleviti provano però anche una profonda ambiguità nei confronti del potere centrale, che li ha discriminati in epoca ottomana e che ora lo sta facendo di nuovo; Eren Yildirim, giovane dede di 35 anni della cemevi di Okmeydani situata a Kasimpasa, quartiere natale di Erdoğan, è vicino alle posizioni dell’Abf, e ci risponde dal centro della purpurea sala di culto: «Nonostante un quarto della popolazione sia alevita, non abbiamo mai avuto un governatore che ci rappresenti. Il Diyanet ci ignora del tutto, nonostante il budget molto più grande rispetto ad altre istituzioni centrali».
IL “PROBLEMA” DEL PLURALISMO
Il Diyanet svolge un ruolo fondamentale all’interno della società turca, nonostante l’evoluzione delle prerogative nel corso degli anni. La disposizione sulla religione di Stato fu abolita nel 1928 e l’aggettivo “laico” fu aggiunto alla costituzione per definire lo Stato turco nel 1937. Uno degli strumenti giuridici più importanti in questo contesto fu la legge n. 429 del 3 marzo 1924 sull’abolizione della religione di Stato e dei Ministeri della Seriyye (Affari religiosi) e dell’Evkaf (Dotazioni). Il primo articolo di questa afferma che «nella Repubblica di Turchia, il Parlamento e il Gabinetto sono responsabili della legislazione e dell’esecuzione delle disposizioni riguardanti gli affari della società; il Diyanet è stata costituita come parte della Repubblica per l’attuazione di tutte le disposizioni riguardanti gli aspetti della fede islamica e l’amministrazione delle istituzioni religiose». Con questo regolamento, gli affari riguardanti la fede e il culto sono diventati di competenza della Diyanet, mentre tutte le altre aree di interesse sono state considerate sotto il potere legislativo del Parlamento, per cui la Sharia come sistema legale è stata abolita.
Oggi l’uso che lo Stato fa della Diyanet, in accordo con la politica governativa, è propagare l’ideologia ufficiale sull’Islam sunnita, adempiendo a compiti come «illuminare la società sulla religione» e “l’educazione religiosa”, nonostante l’articolo 136 della Costituzione del 1982 attualmente in vigore in Turchia definisce l’obiettivo dell’istituzione come «promuovere e consolidare la solidarietà e l’unità nazionale». Quando l’Akp è salito al potere ha sostenuto l’abolizione della Diyanet perché considerata un’istituzione progettata per regolare le credenze in modo centralizzato da parte dello Stato, qualcosa di contrario all’approccio di pluralità e uguaglianza della democrazia secolare. All’inizio del 2012, però, Erdoğan ha dichiarato che l’obiettivo del suo governo fosse quello di crescere una “generazione pia”, mettendo in primo piano l’educazione per attuare la sua agenda islamista. Introdusse un nuovo sistema educativo, noto come “4 + 4 + 4”, basato su una divisione tra i livelli di scuola primaria, secondaria e superiore, ciascuno della durata di quattro anni: l’obiettivo di questo cambiamento era di permettere agli studenti di iscriversi a una scuola imam-hatip (cioè deputata alla formazione degli imam) al livello secondario, invece di aspettare fino alla scuola superiore, aggiungendo al curriculum della scuola secondaria tre nuovi corsi di religione – studio del Corano, vita di Muhammad e conoscenze religiose di base – teoricamente elettivi ma spesso imposti agli studenti con il pretesto di non avere risorse per offrire corsi alternativi.
Gli esami di ammissione alle scuole superiori e all’università, gestiti a livello centrale, includono ora domande sulla religione sunnita al pari di altre materie. Nel curriculum del corso obbligatorio di religione c’è anche una sezione sull’alevismo, ma di solito è trattata frettolosamente nelle ultime settimane del periodo scolastico, e gli aleviti la trovano insoddisfacente: «La nostra richiesta è che alla base del secolarismo ci sia la scienza, e l’unica via è l’educazione. La religione dovrebbe essere lasciata alla libertà individuale. Il problema è che la Diyanet sostiene soltanto l’Islam sunnita», ci dice Yildirim. L’istituzione, al contrario, sostiene che gli aleviti non sono soggetti a discriminazioni perché, a eccezione di alcune credenze locali, non ci sono differenze tra aleviti e sunniti per quanto riguarda i diritti religiosi di base: ciò indica in realtà la negazione di una qualsiasi identità religiosa “alevita”.
Il riconoscimento formale dell’alevismo solleverebbe dunque la questione su cosa debba essere riconosciuto. Se l’alevismo si basa sui bektashi [una confraternita islamica sufi di derivazione sciita costituita nel XVI secolo in Anatolia da Balım Sultan e ispirata agli insegnamenti di Hajji Bektash Veli. Associata per secoli all’ordine dei giannizzeri, nel 1925, in seguito alle riforme di Atatürk che bandirono le confraternite non controllate dal Diyanet, i bektashi trasferirono la loro sede dalla Turchia a Tirana, in Albania, dove vennero poi perseguitati per decenni dal regime comunista] o su altre confraternite, allora il riconoscimento può significare anche il riconoscimento di decine di altre tarikat (“confraternite religiose”). Ciò sarebbe inaccettabile per il Diyanet, che è determinato a rimanere neutrale su tale questione, e, anzi, etichetta tutte le tarikat come “eretiche”, a causa del presupposto che alcuni uomini sono più vicini a Dio di altri. La giustificazione ufficiale dell’Akp alla riluttanza ad affrontare la questione alevita si richiama invece alla molteplicità delle loro organizzazioni e ai diversi punti di vista.
«Quando 25 anni fa Erdoğan era sindaco di Istanbul, ci dissero che qui a Uskudar c’era un problema di urbanistica. Il loro piano era demolire la cemevi e trasferirci in un altro edificio. Per fermarli occupammo la cemevi 24 ore su 24, per molti giorni. Saremmo potuti andare altrove, ma qui c’è la tomba di Karahcaahmet, persone di ogni credo vengono in visita per il suo valore storico e simbolico. Se la mente di questo piano era quella di Erdoğan, probabilmente è perché non ha capito il valore spirituale di questo luogo», conclude Cenen. Di episodi simili, in quegli anni, ce ne sono stati parecchi. Sempre nello stesso periodo anche la cemevi di Kartal, nella periferia asiatica della città, ha rischiato di subire la stessa sorte. Özkan Ergüç, 33 anni, è un frequentatore abituale del luogo: «Avevo 13 anni, e mi sono barricato insieme ad altri qui dentro, perché volevano raderla al suolo. Abbiamo resistito e alla fine ci hanno lasciato stare. Nonostante ciò non ho votato Kilicdaroglu, perché si è circondato di persone che in passato hanno fatto del male a noi aleviti. Non penso che possa fare nulla di buono per noi».
L’APERTURA ALEVITA
Con l’“apertura alevita” del 2007-2008, un’iniziativa governativa per affrontare i malcontenti identitari degli aleviti, l’emarginazione degli aleviti in realtà si è solo intensificata. La maggiore islamizzazione della società turca dall’alto verso il basso ha creato barriere emotive tra i cittadini aleviti e lo Stato turco, per questo motivo il video Alevi pubblicato sul canale Yt del Chp si poneva in un’ottica di rinnovamento: negli ultimi anni Erdoğan e altri membri dell’Akp non hanno risparmiato commenti sarcastici sul background identitario di Kılıçdaroğlu. Sin dagli anni ’70 gli aleviti vengono trattati come potenziali minacce a causa della loro stretta affiliazione con le correnti politiche di sinistra, e spesso sono stati vittime di violenze di massa perpetuate da militanti di destra, spesso con il tacito consenso di parte dell’apparato militare. Yildirim ricorda con rabbia il massacro di Sivas del 2 luglio 1993, con 33 artisti e intellettuali che partecipavano a un festival culturale alevita uccisi dopo che l’hotel in cui risiedevano è stato circondato e incendiato dalla folla: «In passato ci hanno massacrato fisicamente, ora è la nostra fede che è massacrata, con metodi diversi. Con il terrorismo psicologico cercano di distruggere la fede alevita assimilandola a quella sunnita».
Sebbene gli aleviti non abbiano mai abbracciato un grande partito politico come unico rappresentante sulla scena politica, spesso hanno sostenuto il Chp, sostegno interpretato dagli studiosi come un riflesso dell’appoggio alevita al kemalismo e attribuito alla paura della formazione di uno Stato islamico. Nonostante le urne hanno riconfermato il presidente uscente, la fiducia degli aleviti per la vittoria di Kilicdaroglu era alta, tanto che, per favorirne la vittoria, nei mesi precedenti molti aleviti si sono recati in preghiera a Hacıbektaş – città sacra situata in Anatolia.
Secondo Yildirim «per la prima volta in Turchia c’è stata la possibilità di eleggere un presidente alevita. La sua sconfitta ci lascia sgomenti, perché al di là del discorso identitario, questa persona avrebbe difeso il secolarismo dando importanza al merito e all’educazione». Dogan, invece, ha una visione più pragmatica: «Anche se Kilicdaroglu avesse vinto, non sarebbe stato in grado di fare nulla per gli aleviti. Se avesse tentato di cambiare le cose, si sarebbe trovato la popolazione sunnita in piazza a protestare. Di sicuro l’intelligence e l’apparato militare non avrebbero permesso alcun cambiamento». La tacita accettazione delle loro pratiche sarà ancora per molti anni – sicuramente fino alle prossime elezioni – lo status quo.
Foto © Francesco Boscarol

Francesco Boscarol
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