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Salvador Allende, la speranza uccisa

by Roberto Bertoni Bernardi

di Roberto Bertoni Bernardi. Giornalista

L’11 settembre del 1973, assaltando la Moneda, il generale Augusto Pinochet Ugarte fece fallire il sogno democratico di una generazione che si era affidata a Salvador Allende per trovare il proprio posto nel mondo e offrire uno sbocco politico ai propri ideali di uguaglianza e di giustizia sociale. In quella tragedia cilena è racchiusa anche una parte della nostra storia, che lega con un filo Rosso Allenda, Berlinguer e Moro.

Nell’anno in cui tanti, troppi hanno osannato il neo-centenario Henry Kissinger, il segretario di Stato americano che, di fatto, fu tra gli ispiratori del golpe che rovesciò il legittimo governo cileno in carica all’epoca, noi vorremmo rendere invece omaggio a Salvador Allende. Perché l’11 settembre del 1973, assaltando la Moneda, il generale Augusto Pinochet Ugarte non si limitò a far fallire il sogno democratico di una generazione che si era affidata a un socialista dal volto umano per trovare il proprio posto nel mondo e offrire uno sbocco politico ai propri ideali di uguaglianza e di giustizia sociale.

Fece molto di più e di peggio: dimostrò al mondo intero che quel modello di governo e di sviluppo non era possibile, in quanto non consentito da chi tirava le fila nell’ombra e decideva i destini dei singoli Paesi a migliaia di chilometri di distanza. 

UN SOCIALISMO “DIVERSO”

Rendiamo omaggio ad Allende, alla sua breve ma significativa esperienza di governo e alla sua lungimiranza, poiché era consapevole che se avessero prevalso i militari, non si sarebbe verificato un semplice cambio della guardia ma un massacro. E rendiamo omaggio alle ragazze e ai ragazzi che, a ogni latitudine, quel martedì di fine estate avevano vent’anni. Come il 10 giugno del 1940 è stato lo spartiacque per i ventenni nati al termine del primo conflitto mondiale, come l’estate del 2001 è stata il punto di non ritorno per i ventenni alterglobalisti che, tra Seattle e Genova, sognavano un altro mondo possibile e necessario ed ebbero la battuta d’arresto definitiva in un altro drammatico 11 settembre, così i figli del boom economico e del benessere vissero quel giorno la propria prova del fuoco. Allende, infatti, incarnava un modello di socialismo diverso rispetto a quello “improponibile” dell’Unione Sovietica: anche per questo faceva paura.

Chi pianificò il golpe, difatti, sapeva bene che difficilmente sarebbe stato attrattivo un sistema che risolveva ogni controversia con i carri armati e le invasioni, da Budapest a Praga, e che aveva cominciato a disgustare buona parte della gioventù occidentale, nata in un contesto di pace e per nulla desiderosa di ripetere le esperienze che avevano sconvolto i propri genitori. Il suo socialismo ricordava quello di Imre Nagy e di Alexander Dubček, con in più quella mistica latinoamericana che ammantava il tutto di un fascino particolare.

Ciò che accadde in seguito lo sappiamo grazie alle pagine della grande letteratura sudamericana, a cominciare da Luis Sepúlveda e da sua moglie Carmen Yáñez. Sepúlveda, all’epoca ventiquattrenne, era uno dei membri della guardia personale del presidente nonché un esponente della Gioventù Comunista cilena, Carmen ne condivideva la passione e gli ideali e quella vicenda avrebbe travolto per sempre le loro vite.

Le torture, l’esilio, l’esperienza atroce, nel caso di Carmen, di Villa Grimaldi, una lunga separazione che si sarebbe ricomposta solo molti anni dopo e poi il dolore per i propri compagni martoriati: questo ha rappresentato quel colpo di Stato per i ragazzi e le ragazze che avevano seguito Allende nel Cile dei primi anni Settanta. Basti pensare al racconto
Le rose di Atacama, in cui Lucho ripercorre l’avventura dell’amico Fredy Taberna, un giovane militante comunista assassinato dalle milizie comandate da Arellano Stark, i cui sogni e le cui speranze durarono, per l’appunto, come le rose che fioriscono nel deserto di Atacama.

Una meraviglia effimera, dunque, destinata a essere presto sopraffatta dall’orrore.
Nel finale del racconto, Lucho riporta le ultime parole del suo amico: «Mi dichiaro colpevole di essere un dirigente del movimento studentesco, di essere un militante socialista e di aver lottato in difesa del governo costituzionale». Convinzioni profonde per le quali pagò un prezzo altissimo: lo stesso che pagarono buona parte dei suoi coetanei, nel contesto di un Paese devastato, in cui la gioia, che pure fu al centro dello spot pubblicitario degli oppositori (Chile, la alegría ya viene, “Cile, la gioia sta arrivando”) al referendum plebiscitario sulla sua presidenza, indetto da Pinochet nell’88, non è mai davvero tornata.

Lo spiegò, da par suo, lo stesso Lucho a Enzo Biagi, quando andò a intervistarlo nell’ambito di un programma intitolato Giro del mondo, a tu per tu con alcuni dei più grandi scrittori del pianeta. E poi lo ribadì in un romanzo dal titolo evocativo, L’ombra di quel che eravamo, in cui racconta una vicenda grottesca in cui la memoria si mescola al noir, caratterizzata dalla presenza di una giovane agente di Polizia, Adelita Bobadilla, esponente della nuova Polizia democratica che nulla ha a che spartire con gli orrori di chi l’ha preceduta indossando la stessa divisa. Nel confronto amarissimo fra i ragazzi di allora, tutti invecchiati, stanchi e con addosso le conseguenze del martirio che avevano subito e nel dialogo fra il vecchio militante comunista, Sepúlveda in versione autobiografica, e la giovane poliziotta, Lucho tocca l’apice della sua arte, mescolando la storia, la vita, il rammarico, il dolore e la voglia di andare avanti comunque, nonostante tutto.

DA ALLENDE A MORO

In quella tragedia cilena è racchiusa anche una parte della nostra storia, se si pensa ai tre articoli che Berlinguer scrisse su Rinascita fra il 28 settembre e il 12 ottobre del ’73, teorizzando il “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana nel timore che i fatti del Cile potessero ripetersi in Italia. Di quell’utopia concreta se ne discusse all’infinito e quel messaggio trovò ascolto e accoglienza dall’altra parte, grazie alla saggezza di un democristiano sui generis che aveva capito che il suo partito stava correndo il rischio di “governare lo sfascio del Paese” e affondare con esso. Volendo tenere insieme l’impossibile, possiamo sostenere che c’è un filo rosso che congiunge Allende a Moro, perché se alla Moneda si infransero le ambizioni di normalità e indipendenza del Cile, in via Caetani terminarono per sempre quelle dell’Italia. Nel bagagliaio della Renault 4 rossa in cui fu ritrovato il corpo del presidente della Democrazia Cristiana, non è assurdo sostenere che sia rimasta chiusa anche la dignità del Paese.

Un Paese che, da allora, non è stato più lo stesso, che ha cominciato a vagheggiare di grandi riforme costituzionali per stravolgere la Carta nata dalla Resistenza e scaricare su di essa la propria incapacità di rinnovarsi. Un Paese che non ha più vissuto un’autentica stagione di riforme nell’interesse della cittadinanza, salvo riempirsi la bocca della parola “riformismo” fino a svuotarla di senso e a privarla del valore profondo che pure avrebbe. Un Paese perduto, con un uomo mite e perbene, Berlinguer, che non si è mai davvero ripreso dal dramma di Moro, e uno sfascio che ha finito col travolgere non solo la DC ma l’intero sistema politico, affogato nel mare fangoso della corruzione e nella scomparsa di ogni straccio di idea, dibattito e confronto civile. 

Allende, cinquant’anni dopo. Nel nostro deserto di Atacama non è fiorita più neanche una rosa, nemmeno per un giorno.

Foto © Wikimedia Commons

Roberto Bertoni Bernardi

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