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Bartleby lo scrivano

di Goffredo Fofi

di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista.

È una società, quella moderna, quella in cui viviamo e agiamo, in cui l’individuo conta molto poco, nonostante le sue smanie, oggi, per Internet, i social. Il potere è riuscito a vincere ogni resistenza, ogni tentativo di dar vita a modelli diversi, e lo ha fatto con la forza delle armi e la violenza, lasciandoci solo la possibilità di una resistenza passiva alla Bartleby o alla Wakefield.

Per una volta non voglio parlare di personaggi reali ma immaginari, di invenzioni letterarie bensì altamente significative della povertà di rivolte individuali nel nostro tempo. Due grandissimi scrittori del “Rinascimento americano” di fine Ottocento, Herman Melville (l’autore di Moby Dick) e Nathaniel Hawthorne (l’autore di La lettera scarlatta) si trovarono a vivere in un’epoca di enorme sviluppo delle città, un’esplosione raccontata mirabilmente da tanti, da Charles Dickens (Londra) a Émile Zola (Parigi) e in Italia faticosamente da qualche scapigliato o da Gabriele D’Annunzio e Federico De Roberto (Roma, Catania, Milano, Genova, Napoli). Anche gli Stati Uniti furono ossessionati da questo tema, per esempio con Poe e più tardi con tanti altri.

Il primo dei due grandi che ho citato ha scritto il primo racconto, Bartleby lo scrivano, sulla pacata rivolta di un modesto impiegato, il piccolo borghese Bartleby famoso per il suo rifiuto di obbedire ai suoi capi dicendo: «Preferirei di no», un’affermazione diventata quasi proverbiale. (Un nostro grande scrittore e traduttore, Gianni Celati, scelse discutibilmente di tradurla in: «Avrei preferenza di no», scandalizzandomi!).

L’altro racconto, quello di Hawthorne, si intitola Wakefield ed è anch’esso diventato proverbiale, anche se molti ne conoscono la storia senza sapere da dove viene. È quella del pacifico piccolo-borghese newyorkese che un giorno dice alla moglie che scende in strada per comprare qualcosa (le sigarette, mi pare) e… sparisce nella massa di persone della grande città. In realtà si è sistemato in una strada vicina, ma senza mai incrociare la moglie o altre persone del suo giro. E un bel giorno, a distanza di anni, si ripresenta a casa come se niente fosse…

È una società, quella moderna, quella in cui viviamo e agiamo, in cui l’individuo conta molto poco, nonostante le sue smanie, oggi, per Internet, i social che fingono di offrire a tutti la possibilità di sentirsi (essere!) qualcuno solo perché diciamo la nostra su tutto, perché riteniamo di avere qualcosa di significativo da dire su tutto…

La società in cui viviamo ha le sue origini in quella narrata da Melville e da Hawthorne, dai francesi e inglesi e russi e tedeschi del secondo Ottocento, e ha lasciato spazio a grandi rivolte collettive solo al termine di tragedie mondiali come la Grande Guerra e la Seconda guerra mondiale. Ma il potere (das Kapital!), che preferisce da tempo non avere volti chiari e riconoscibili ma nascondersi dietro sigle e formule anonime, è riuscito a vincere ogni resistenza, ogni tentativo di dar vita a modelli diversi, e lo ha fatto con la forza delle armi e la violenza, lasciandoci solo la possibilità di una resistenza passiva alla Bartleby o alla Wakefield, senza che questo cambi alcunché nell’ordine sociale, nella generale soggezione al potere.

E ci sarebbe di che stupirsi per l’assenza di risposte più vaste, in sostanza anche un po’ anarchiche, in una società (in un sistema di potere e di controllo abilissimo, che si serve di tanti “esperti” servili – “gli intellettuali”! – che fa di noi ciò che vuole, e che ha tutti i mezzi per farlo, illudendoci di ragionare con la nostra testa mentre ragioniamo con la sua, pensiamo quel che ci sollecitano a pensare.

«Ribellarsi è giusto», si diceva molti anni fa, e non si dice più oggi. Anche quando si crede di essere, come Bartleby e Wakefield, autonomi e liberi nelle nostre scelte.

Foto © Illustrazione di Doriano Strologo

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Goffredo Fofi

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