di Francesca Coin. Sociologa e scrittrice.
Intervista a cura di Gaetano De Monte. Giornalista.
Sociologa esperta di welfare e disuguaglianze sociali, con una lunga esperienza di insegnamento all’estero, Francesca Coin ha analizzato in Le Grandi Dimissioni (Einaudi, 2023) le ragioni che hanno spinto, negli ultimi tre anni, milioni di persone in tutto il mondo ad abbandonare il proprio posto di lavoro, nonostante non avessero da subito un’alternativa.
«Ha senso stare più tempo al lavoro che con i figli?». E ancora: «ha senso trascorrere diverse ore al giorno nel traffico per andare al lavoro?». A partire da queste domande e dall’analisi di molti dati, come quelli che hanno rivelato che negli Stati Uniti, nel 2021, 48 milioni di persone hanno lasciato volontariamente il lavoro e più di 50 milioni sono stati quelli che l’hanno abbandonato l’anno successivo; attraverso lo studio, dunque, di quella che appare una tendenza di lungo periodo, la sociologa Francesca Coin, che si occupa di lavoro e diseguaglianze sociali, ha dato alle stampe quest’estate per la casa editrice Einaudi, Le Grandi Dimissioni, un saggio che si legge come un romanzo dal sottotitolo inequivocabile: Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita.
Coin ha approfondito le cause di quel fenomeno che, partito dagli Stati Uniti, oggi è diventato sempre più globale. In Italia, per esempio, nel 2021 ci sono stati quasi due milioni di dimissioni volontarie, una soglia che è stata superata nel corso del 2022, secondo i dati del rapporto sulle comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e di cui il saggio dà conto. Non solo. La fotografia scattata dal V rapporto Censis-Eudaimon del 2023 sul welfare aziendale rileva che il rapporto soggettivo del lavoro con gli italiani è cambiato. La professoressa Coin avverte che siamo di fronte a un cambio radicale rispetto alla cultura lavorativa di pochi decenni fa, ben sintetizzato da una frase: «il lavoro mi serve solo per avere i soldi di cui ho bisogno». A pensarla così è il 64 per cento degli intervistati dal Censis, l’istituto di ricerca che, in questo senso, avverte: «la disaffezione, l’estraneazione da lavoro nel lavoro e, anche la propensione ad andarsene verso altre aziende è molto forte tra essi, e la loro dipartita in massa o un loro allentamento diffuso del loro impegno potrebbero avere effetti tremendi sulle aziende coinvolte».
In Le Grandi Dimissioni fa riferimento all’esistenza di una anomalia italiana: per quali ragioni in Italia si rifiuta un lavoro, pur avendone bisogno, oppure lo si lascia anche senza avere un’alternativa?L’anomalia italiana risiede nel fatto che banalmente qui c’è un alto tasso di disoccupazione, ed esistono circa cinque milioni di lavoratori e lavoratrici scoraggiati. Non abbiamo di certo una piena occupazione come è stata per certi versi caratterizzata, e per lungo tempo, la situazione degli Stati Uniti. Per capire quali siano le ragioni di questo abbandono, quindi, dobbiamo necessariamente contraddire la narrazione – un tempo dominante – che se ne va soltanto chi se lo può permettere. Le persone lasciano il lavoro perché si trovano male, perché non ce la fanno più. Perché se consideriamo i diversi settori, scopriamo che una grossa fetta è composta da lavoro senza qualità, in cui i turni sono massacranti e la sicurezza è a rischio.
Che tipo di relazione c’è tra il rifiuto del lavoro di cui parla nel testo e le teorie sul non-lavoro dei movimenti degli anni ’70?
Mi verrebbe da dire che non c’è relazione tra il rifiuto del lavoro, quantomeno come è stato teorizzato negli anni ’70, e quello che avviene adesso. In linea astratta oggi il rifiuto del lavoro combacia con la carenza di personale in molti settori, cioè con persone che rifiutano di lavorare a certe condizioni. Negli anni ’70, invece, il costrutto teorico del non-lavoro era proposto da soggettività messe al lavoro, cioè era teorizzato nelle fabbriche, come prospettiva politica di liberazione. Oggi, in alcuni casi, il ri!uto è pre-politico, c’è un rifiuto spontaneo, vitale, profondamente incarnato che, secondo me, ha molto a che fare con la genealogia femminista. È il ri!uto del destino, come quello che un tempo veniva attribuito alle donne dall’esterno. Non è un caso che quello che viene rifiutato oggi è, soprattutto, il lavoro gratuito, malpagato, sfruttato, reso invisibile. Che non ha a che fare strettamente con il lavoro subordinato, ma che invece ha molte analogie con il lavoro domestico e di cura. Si lascia per burnout, perché il corpo non ce la fa più.
Nel libro fa anche riferimento alla situazione delle università del Regno Unito dove insegnava, in cui il personale prima protesta contro la precarietà e l’aumento continuo dei carichi di lavoro, e poi sceglie di dimettersi. Esiste una prospettiva politica nelle grandi dimissioni?
L’università nel Regno Unito risponde ancora a logiche di mercato, a un’organizzazione del lavoro che è gestita interamente in maniera aziendale. Allo stesso tempo si tratta di un settore fortemente sindacalizzato. Proprio di recente è uscito un articolo del Financial Times che la descrive come una università in forte declino, con il personale profondamente insoddisfatto e che se ne vuole andare, con gli studenti che protestano di continuo. Quando ho cominciato a scrivere questo libro, mi ero appena dimessa dal mio dipartimento, uno dei migliori, e con me tante altre colleghe avevano lasciato. È stato allora che mi sono resa conto che laddove la sindacalizzazione non funziona, laddove le richieste dei lavoratori e lavoratrici non vengono ascoltate e prese in considerazione, dove non esiste la possibilità di dar voce alle problematiche, l’exit, cioè le dimissioni, sono l’unica strada da percorrere. Nel libro scrivo che in questo modo ci troviamo di fronte a un doppio fallimento. Le grandi dimissioni sono la cartina di tornasole dello scollamento tra i bisogni della società e le !nalità del sistema produttivo. E questa è una dinamica trasversale, che riguarda diversi settori.
Ma c’è un settore produttivo, in particolare, in Italia, in cui è risultata più evidente questa disaffezione?
Sempre nel libro, considero come rilevanti alcuni dati pubblicati dal ministero del Lavoro nel 2022. A livello settoriale la maggioranza delle dimissioni si concentra nei servizi (69%) la parte restante, invece, nel commercio e nelle attività di alloggio e ristorazione. Ma anche il comparto sanitario risulta coinvolto, con il 7% delle dimissioni.
In Le Grandi Dimissioni sono raccolte diverse storie. Quella di Viola, ragazza del Sud Italia che lascia un lavoro che amava particolarmente, cosa dimostra?
La storia di Viola è emblematica perché dice cosa il lavoro non dovrebbe essere, ed è una chiave che permette alla classe precaria di sfuggire alla “trappola della passione”. E che ci consente di dire ciò che il lavoro non è: non è un hobby, non è passione, non è privilegio, non è realizzazione di sé, non è un favore. Cosa è invece il lavoro oggi dobbiamo rielaborarlo tutti insieme, perché in teoria dovrebbe essere lo strumento per sopperire ai bisogni di riproduzione sociale. Nella realtà, invece, è un obbligo che molto spesso non risponde nemmeno ai bisogni individuali, nel senso che la contropartita che si riceve è molto bassa, anche per rispondere a un bisogno di sostentamento
Foto © Marten Bjork / CopyLeft

Francesca Coin
Sociologa e scrittrice