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Nassiriya vent’anni dopo

by Roberto Bertoni Bernardi

di Roberto Bertoni Bernardi. Giornalista e scrittore.

Il ricordo delle vittime della strage di Nassiriya del 12 novembre 2003 (in cui morirono dodici carabinieri, cinque soldati dell’esercito, due civili e nove cittadini iracheni) induce a una riflessione sulla necessità di un movimento che possa farsi portavoce degli ideali del vero pacifismo.

La pietà e il rispetto nei confronti delle vittime della strage di Nassiriya non possono farci perdere di vista un aspetto essenziale: quei soldati non si sarebbero mai dovuti trovare lì. La guerra in Iraq, infatti, è stato uno dei tanti conflitti dissennati dell’ultimo ventennio, simbolo di quella furia bellicista post 11 settembre che non ha reso giustizia all’America ma, in compenso, ha insanguinato il mondo.

IL BUCO NERO IRACHENO
Conosciamo già l’obiezione che potrebbe esserci rivolta: compiendo simili affermazioni, si disonora la memoria dei caduti. Ma non è così: la memoria dei caduti la disonora chi non si vuole assumere la responsabilità di scelte che si sono rivelate non solo sbagliate ma folli, specie se si considera il processo di destabilizzazione cui è andata incontro quell’area negli anni successivi. Senza, naturalmente, difendere l’operato di Saddam Hussein: del resto non ci si può schierare a favore di alcun tiranno. Sostenere il diritto all’autodeterminazione dei popoli signi!ca l’esatto opposto e contiene in sé una prospettiva di pace e fratellanza universale: un orizzonte che oggi pare essere indicato quasi esclusivamente dalle Chiese, tanto apprezzato quanto ignorato una volta terminati gli applausi di circostanza. L’Iraq, al pari dell’Afghanistan, costituisce il buco nero della presidenza Bush nonché una delle ragioni del declino degli Stati Uniti, che mai si sono ripresi da quegli otto anni in cui hanno rivendicato la propria supremazia globale a suon di bombe, salvo poi trovarsi impreparati al cospetto dell’uragano Katryna che nell’agosto del 2005 sconvolse New Orleans.

IL MOVIMENTO PACIFISTA

Ricordiamo bene ciò che affermava, invano, il movimento paci!sta che invase le strade e le piazze di tutto il mondo il 15 febbraio del 2003, mettendo in guardia i governanti di ogni latitudine dal compiere una decisione scellerata che ha generato, per reazione, una rivolta nel mondo arabo di cui si sono approfittati a piene mani tutti i predicatori d’odio, a cominciare dall’Isis.

Ricordiamo anche gli insulti che il suddetto movimento ricevette nei giorni che seguirono l’attentato, quando chiese a gran voce il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq e venne accusato di codardia, diserzione e, di fatto, complicità con i terroristi.Tra gli altri, ricordiamo la fermezza di papa Wojtyla, un personaggio certamente meno progressista di Bergoglio, in merito a quel conflitto, contro cui, vecchio e malato, fece tutto ciò che era in suo potere, salvo ricevere a sua volta tanti consensi e nessun ascolto.

E ricordiamo anche un altro elemento che spiega molti drammi del nostro Paese, ossia la provenienza di buona parte delle diciannove vittime italiane della strage (le altre nove erano irachene): si trattava perlopiù di ragazzi del Sud, che nell’Esercito avevano trovato non solo un punto di riferimento ma anche un porto sicuro. Perché a morire nelle guerre dei sovrani e dei “padroni del vapore”, da sempre, sono i ‘gli di quelle terre in cui la divisa costituisce una valida alternativa alla disoccupazione o a qualcosa di peggio, e questa parte della tragedia, sovente dimenticata, è la più amara.

Era il 18 novembre, sei giorni dopo l’attacco, quando nella basilica di San Paolo fuori le Mura si tennero i funerali di Stato. Tornano in mente le bare allineate avvolte nel Tricolore, la commozione del presidente Ciampi e l’infinita retorica che in quei giorni venne sparsa a piene mani, costituendo, essa sì, uno sfregio alla dignità di persone che non avevano alcuna intenzione di diventare eroi. Fra le vittime, ci fu anche il regista Stefano Rolla, sessantasei anni, che si era recato in Iraq insieme al suo assistente, Aureliano Amadei, per realizzare un film.

Vent’anni dopo, se ci fate caso, quella guerra non ha padri né responsabili, proprio come il conflitto in Afghanistan. Coloro che all’epoca ci spiegavano, con inusitata arroganza, che fosse indispensabile partecipare a quella mattanza, in nome dei presunti “valori occidentali” che ciclicamente compaiono sulla bocca di difensori alquanto improbabili, da tempo ci spiegano, con altrettanta sicumera, che si trattò di una overreaction, di una “reazione spropositata”, e che sì, in e*etti sarebbe stato meglio assumere scelte diverse perché le conseguenze di quella follia sono ormai sotto gli occhi di chiunque.

Peccato che nessuno abbia mai chiesto scusa a Gino Strada, linciato per anni per le sue posizioni di “pacifismo integrale” e accusato di essere una sorta di “quinta colonna del jihad”. Peccato che sia tuttora necessario sventolare la bandiera della pace, ricevendo non meno contumelie di allora da parte degli stessi che oggi rivendicano un’altra guerra di cui fra vent’anni, o forse prima, si pentiranno per finta, senza ammettere di aver sbagliato tutto.

Peccato che si sia sempre più costretti a fare i conti con gente che non ha alcuna idea né convinzione ma segue solamente la corrente, difendendo i propri interessi e sostenendo qualunque teoria a seconda della convenienza del momento. Peccato anche che di figure di veri paci!sti ne nascano poche ogni secolo e, di questi tempi, non se ne vedano. Peccato, insomma, che siamo orfani di modelli e punti di riferimento, al cospetto di una barbarie senza !ne e di una devastazione planetaria che non lascia scampo.

A vent’anni di distanza è doveroso onorare i morti, ricordandone il valore e il sacri’cio. Come ci si inchinò all’epoca di fronte ai loro feretri, così oggi poniamo virtualmente un ‘ore sulle loro lapidi. L’importante è non strumentalizzare coloro cui della vita umana non importa nulla, essendo interessati soltanto a difendere le proprie poltrone e a guadagnarsi futuri riconoscimenti, ossia a far carriera a qualunque costo.

Nassiriya è il simbolo di tutto ciò che non deve più accadere. E allora, in conclusione, proviamo a innalzare la bandiera della speranza. Perché è vero che i lutti non sono certo mancati in questi due decenni. Ed è altrettanto vero che l’orrore con cui siamo costretti a confrontarci ogni giorno non è certo inferiore a quello che ha segnato l’inizio del secolo.

Fatto sta che oggi, nelle nuove generazioni, si è affermata una forte coscienza paci’sta, che, anche in ambienti religiosi, riesce ad aggregare e a valorizzare un pensiero alternativo rispetto alla crudeltà dilagante. Non a caso, la Giornata Mondiale della Gioventù, svoltasi lo scorso agosto a Lisbona, è stata un successo. Non a caso, la Marcia Perugia – Assisi e le altre manifestazioni per la pace cui abbiamo assistito in questi mesi hanno visto una partecipazione notevole. Non a caso, là dove non riescono più partiti e corpi intermedi, riescono nuove forme di associazionismo.

Vent’anni fa alcuni dei manifestanti attuali non erano neanche nati, e se nel deserto valoriale che abbiamo lasciato loro è sbocciato il fiore della resistenza al cattivismo, significa che non tutto è perduto. Un altro mondo era e resta possibile.

Foto Monumento ai Caduti della Strage di Nassiriya del 2003 – Colleferro © Roberto Di Molfetta, CC BY-SA 4.0

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Roberto Bertoni Bernardi

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