Paolo Naso. Docente di Scienza politica all'Università Sapienza di Roma.
“Pietà l’è morta” cantavano gli alpini di fronte alle atrocità della Prima guerra mondiale e, dopo di loro, i partigiani nella lotta antifascista. Ma la pietà muore anche oggi, di fronte alle migliaia di profughi disperati che arrivano a Lampedusa sulle loro carrette del mare, lasciando dietro di sé una scia di vittime. Le notizie di questi giorni – ogni giorno porta la sua pena – sono tre. La prima è quella di una bambina di cinque mesi morta in un naufragio del 13 settembre scorso, ancora una volta nei pressi dell’isola di Lampedusa. Dieci anni dopo la strage del 3 ottobre del 2013, è l’ultima vittima di una catena che conta 30.000 migranti morti nel Mediterraneo.
La seconda è quella che mostra migliaia di profughi, stremati da un viaggio impossibile, accalcati sul molo Favaloro di Lampedusa, assetati, affamati, bisognosi di una toilette. La terza è che il Governo Meloni, nella migliore tradizione salviniana, ha ripreso la sua guerra alle Ong e quindi propagandando la criminalizzazione della loro azione umanitaria giudicata lesiva degli interessi nazionali. In parole povere e secondo la popolare vulgata meloniana: «Ma come, noi li respingiamo e voi li andate a salvare?».
È in questo clima che si celebra il decennale della tragedia del 3 ottobre del 2013 quando, proprio nei pressi di Lampedusa, morirono 368 persone. Allora non si capì il carattere permanente dei flussi migratori e non si attivò nessun meccanismo europeo di gestione condivisa del fenomeno ma, almeno, fu varata l’operazione di ricerca e soccorso in mare denominata Mare Nostrum. Il Governo Letta, in altre parole, avvertì l’urgenza di una risposta, sia pure di natura esclusivamente umanitaria.
In quegli stessi mesi, nell’ambito della Federazione delle Chiese evangeliche (Fcei) e della Comunità di Sant’Egidio maturavano altre riflessioni. L’idea chiave era che l’unica strategia utile a contrastare l’immigrazione irregolare gestita dagli scafisti a prezzi umani e morali inaccettabili fosse l’apertura di canali regolari: i corridoi umanitari, appunto. Il primo corridoio fu aperto nel 2015 e, da allora, migliaia di profughi sono giunti in Italia e in altri paesi europei attraverso una via sicura e legale. Certamente fu e resta un successo per la società civile e per i promotori “ecumenici” di quel progetto ma, a otto anni di distanza, bisogna andare oltre. I Corridoi umanitari sono rimasti una “buona pratica” e non si sono affermati come una policy dell’Unione europea.
Ad oggi, insomma, pesano solo sulle spalle dei promotori e pertanto si limitano a numeri molto piccoli rispetto alla portata del fenomeno. Nel frattempo, in opposizione alle linee guida europee e alla logica dell’integrazione, il Governo Meloni sta destrutturando il sistema di accoglienza che, tra luci ed ombre, si è consolidato in questo decennio. I più recenti provvedimenti, infatti, hanno ridotto all’osso i servizi all’integrazione e all’inclusione sociale – apprendimento dell’italiano, formazione al lavoro, assistenza psicologica per superare i traumi migratori – puntando invece sulle espulsioni facili, i respingimenti e gli accordi con i Paesi dove i migranti si imbarcano.
A un anno di distanza, questa politica si mostra fallimentare tanto sul piano tecnico – gli arrivi sono aumentati – che su quello morale perché, nel frattempo, si sono radicalizzate le spinte xenofobiche e talora razziste. Anche di fronte al cadavere di una bambina di cinque mesi si sono sprecati commenti fuori luogo e fuori misura sulla responsabilità delle Ong e di altri soggetti che, con la loro azione umanitaria, svolgerebbero la funzione di “fattore di attrazione” dei migranti.
Infine, l’Europa: invocata quando a Lampedusa si crea la fila dei barconi carichi di migranti, demonizzata quando chiede impegni seri e coerenti. L’europeismo a giorni (e ministri) alterni, per cui un giorno si esibisce la bandiera con le stelle dorate su sfondo blu e il giorno dopo si fa appello al sovranismo nazionale, priva l’Italia di ogni credibilità e autorevolezza negoziale. E non sarà certo la formula vuota del Piano Mattei – un’araba fenice su cui Giorgia Meloni costruisce la sua “retorica mediterranea” – a riempire il vuoto di idee e di proposte che caratterizza la politica migratoria di Palazzo Chigi.
Il decennale di una strage deve essere l’occasione per fare un bilancio, per capire che cosa abbiamo fatto per evitare che le migrazioni irregolari uccidessero altre persone, per valutare la qualità delle nuove strategie adottate. Ed è un bilancio tutto in rosso, non solo carico di errori tecnici ma anche segnato da una progressiva assuefazione. Morire di immigrazione non fa notizia, non smuove le coscienze, non sfida la politica.
Foto © Mika Baumeister via Unsplash
Paolo Naso
Docente di Scienza politica all'Università Sapienza di Roma.