Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista.
Woody Guthrie (1912-1967) è considerato tra i cantanti folk più importanti della storia della musica statunitense, avendo influenzato artisti quali Bob Dylan, Joan Baez, Bruce Springsteen, Joe Strummer e Billy Bragg. Il suo bel libro di memorie (Questa terra è la mia terra) è una miniera di storie, di incontri, di aneddoti, e tra tante altre cose serve a spiegare l’amore che – nonostante tutto – abbiamo avuto per una certa cultura degli Usa.
«Questa chitarra fa fuori i fascisti!» aveva scritto sulla sua chitarra Woody Guthrie, il leggendario cantautore americano degli anni della Grande crisi, gli anni Trenta statunitensi del secolo scorso.
Non nasceva dal niente, Woody Guthrie, nasceva dalla “strada” che era già stata degli hobo, i proletari che andavano vagabondando per gli States in cerca di lavoro, dalla strada che era stata cantata mirabilmente da Jack London.
Tutta una mitologia è nata da questo, ma non si trattava di figure romantiche, di simpatici vagabondi e avventurieri, bensì di disoccupati, di senza-lavoro la cui irrequietezza nasceva sì dal bisogno ma anche dal gusto dell’avventura e soprattutto dal rifiuto della fabbrica, vista – com’era, e come la descrisse mirabilmente Charlie Chaplin in Tempi moderni alla metà del decennio – come un luogo di lavori forzati, ossessivamente condizionati dalla macchina.
Molte tensioni si incrociavano in figure come quella di Guthrie: un individualismo irriducibile, il rifiuto del lavoro come ordine e condanna, il gusto dell’avventura e di sempre nuovi incontri, e insieme un’azione di proselitismo sia diretto che indiretto di sapore socialista, un’azione a ben vedere da sindacalisti spontanei dentro un movimento in formazione, dentro l’utopia del socialismo, e secondo una logica decisamente antirazzista.
A Woody Guthrie sono state rimproverate, da una certa Sinistra soprattutto europea e “leninista”, molte cose, un certo patriottismo nonostante tutto, una certa simpatia per Roosevelt e per il suo New Deal. Non diversamente però da quanto accadeva, per esempio, in un grande romanzo del tempo come Furore di John Steinbeck, e nel film che ne trasse John Ford.
Un ideale di “popolo” («Noi siamo il popolo e noi vinceremo», diceva la vecchia e indomita madre a Tom Joad proletario in fuga, nel finale del romanzo come in quello del film) che intendeva superare le grandi barriere del razzismo e dello sfruttamento, ma che non rinunciava a valori di libertà (e diciamo pure di individualismo) che venivano invece conculcati nella Russia sovietica, come ebbero ad accorgersi molto bene dei grandi scrittori democratici, anzi rivoluzionari, come John Dos Passos, come Ernest Hemingway, come appunto John Steinbeck e il grande autore nero di Uomo invisibile, Ralph Ellison.
Oggi ci appaiono più chiare e necessarie le ragioni degli scrittori che avevano creduto nel Comunismo e ne avevano viste le realizzazioni concrete, e ci è più chiara, anche con una certa parte di ambiguità, la loro scelta di rispettare i valori di fondo della democrazia. We the people, appunto. E quelle che in Guthrie potevano sembrare delle contraddizioni riusciamo a capirle meglio che in passato.
E va anche detto che l’individualismo di Guthrie seppe tenerlo lontano dalle lusinghe del mercato musicale – radio e poi tv. (È morto nel 1967, pochi giorni prima che , molto più a Sud, venisse ammazzato Che Guevara dagli emissari del capitalismo Usa e del comunismo sovietico).
Di grandi figure come la sua non sono stati rari gli Usa del New Deal,
e penso ai nostri Sacco e Vanzetti, o a Joe Hill, immigrato svedese agitatore e sindacalista cui anche è stato dedicato un bel film; e penso alla grande Dorothy Day, fondatrice del sindacato cattolico americano negli stessi anni di Guthrie.
Il figlio di Woody, Arlo, musicista anche lui anche se di minor forza, fu il protagonista di un film di Arthur Penn davvero bello, Alice’s restaurant, del 1969, in difesa degli eredi moderni degli hobo, gli hippie di un decennio di grandi conflitti, al tempo del Vietnam.
Il bel libro di memorie di Woody Guthrie, Questa terra è la mia terra, venne pubblicato in Italia da Samonà e Savelli nel 1977 accompagnato da due preziosi interventi di Peppino Ortoleva e di Sandro Portelli. Non lo si trova più facilmente, andrebbe ristampato!
È una miniera di storie, di incontri, di aneddoti, e tra tante altre cose serve a spiegare l’amore che nonostante tutto abbiamo avuto per una certa cultura degli Usa («abbiamo il subcosciente colonizzato dall’America» ha detto, mi pare, Wim Wenders) perché essa ha saputo popolare il nostro immaginario anche di figure e modelli positivi e autentici, e non solo di cattiva merce ideologica.
Illustrazione © Doriano Strologo
Goffredo Fofi
Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista.