di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma.
Per la prima volta uno studio ha affrontato il tema degli abusi sessuali verificatesi nell’alveo della Chiesa evangelica in Germania (Ekd), rivelando che il problema è molto più diffuso di quanto si pensasse o si volesse ammettere. I ricercatori hanno trovato prove per un totale di 1.259 perpetratori e 2.225 vittime, mostrando che sostanzialmente, la situazione delle chiese territoriali protestanti, in fatto di abusi su minori, è analoga a quella della Chiesa cattolica. Ma, secondo il direttore dello studio Martin Wazlawik, questa è solo “la punta dell’iceberg”.
La presidente facente funzioni del Consiglio della Chiesa evangelica in Germania, vescova Kirsten Fehrs, ha dichiarato di essere «sconvolta ma non oltremodo sorpresa» (fassungslos). Evidentemente, disponeva di informazioni diverse rispetto alla maggioranza di chi fa parte della sua Chiesa.
I risultati della ricerca ForuM, commissionata dalla Chiesa evangelica in Germania (Ekd), sono esplosi come una bomba: sostanzialmente, la situazione delle Chiese territoriali protestanti, in fatto di abusi su minori, è analoga a quella della Chiesa cattolica. Lo studio riguarda pastori, musicisti ecclesiastici, personale scolastico, collaboratori stipendiati e volontari e parla di migliaia di casi, che costituirebbero, inoltre, “la punta di un iceberg”.
Che il Protestantesimo non fosse un’isola felice, questo sì, era noto, ma il carattere sistemico della tragedia giunge per molte persone ampiamente inatteso. Probabilmente ciò ha a che vedere col fatto che le tempeste giudiziarie erano state meno violente e pubblicizzate che in altri casi. Fatto sta che le grandi (o quelle che un tempo erano tali) Chiese cristiane devono fare i conti con un fenomeno trasversale e ripugnante, che mina alla radice la loro credibilità.
Le proporzioni devastanti della tragedia fanno giustizia sommaria della fiducia protestante di essere “almeno un po’ meglio”, qualunque cosa una tale espressione possa significare in questo contesto. Altro punto chiaro è che l’associazione, effettivamente sostenuta da più d’uno, tra abusi ed etica sessuale cattolica, celibato ecclesiastico e simili, appare ora, come minimo, completamente da rivedere.
Non sono mancate, nemmeno in Italia, reazioni che si è tentato di definire di malcelata (molto malcelata) soddisfazione. «Finalmente anche loro, questi “primi della classe da strapazzo”, con il loro assetto federale “sedicente democratico” (perché come centralismo e verticismo combattano gli abusi non è, al momento, chiarissimo), hanno perso la loro “sicumera pseudoprogressista”, eccetera».
Non mi soffermo su questo tipo di sciacallaggio, che oltretutto scatena pulsioni difensive delle quali, in questo momento, non c’è davvero bisogno.
Su un registro diverso, troviamo già, nel dibattito tedesco, alcune riflessioni che si presentano come teologiche. Tale rapidità stupisce anche chi, come chi scrive, tende (pavlovianamente, vorrei dire) a reagire a qualunque notizia con qualche perla di saggezza teologica. Lo stordimento è tale da togliere lucidità: a chi è direttamente coinvolto, per ovvie ragioni; a chi sembra ritenersi esterno e in condizione di offrire consigli, per altre. Ma tant’è.
Le conclusioni dello studio (tutto il materiale è accessibile sul sito www. forum-studie.de) e i commenti a margine da parte di specialisti/e in sociologia e diritto sono prodighi di spunti “teologici”, che sottolineano le radici “specificamente protestanti” del fenomeno. Segnalo un elemento, ripreso anche da osservatori evangelici.
Si tratta – udite, udite! – del messaggio della giustificazione per grazia, sul quale, per la verità, credevamo, almeno da 25 anni, di aver raggiunto un consenso ecumenico. Espongo la critica nella sua formulazione più intelligente: tale annuncio, in Lutero (anche qui: in realtà si tratta di Agostino e, secondo molti, di Paolo) è formulato dal punto di vista di chi è colpevole; il rischio è di banalizzare la colpa e, soprattutto, di non considerare la vittima.
Tale rischio (secondo aspetto della critica) è accentuato da una visione “metafisica” del peccato: se siamo tutti e tutte nel peccato va a finire, si afferma, che il peccato concreto, quello che commetto io, e non l’essere umano, passa in secondo piano.
Chiunque conosca, anche superficialmente, il dibattito teologico, sa che tali questioni sono sempre state discusse nel Cristianesimo occidentale. Può essere che richiedano un approfondimento anche in questo contesto. Personalmente, però, sono scettico su questo tipo di approccio. Troppa fretta di “buttarla in teologia” e dunque sul piano della riflessione, mentre c’è bisogno di conversione. Il termine neotestamentario per conversione è spesso tradotto (anche da Lutero) con l’antipatica, ma necessaria, parola penitenza. E la penitenza deve precedere la teologia.
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Fulvio Ferrario
Professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese
di Teologia di Roma.