di Nicola Pedrazzi. Giornalista, redattore della rivista il Mulino, già corrispondente da Tirana per Osservatorio Balcani e Caucaso.
«La mia sarà una Commissione geopolitica impegnata in politiche sostenibili. Voglio che l’Unione europea sia la custode del multilateralismo». Sono queste le parole con cui Ursula Von Der Leyen si insediò a Bruxelles come Presidente della Commissione europea. Era l’autunno 2019, e nell’arco del suo mandato avrebbe dovuto affrontare una pandemia globale e il ritorno della guerra in Europa.
Dinanzi alla prima crisi la Commissione rispose con il piano Next Generation EU: una politica quadro che ha il merito di integrare la transizione ambientale e la transizione digitale, ma soprattutto che è stata finanziata attraverso la prima, storica, emissione di debito pubblico europeo.
Dinanzi alla seconda emergenza, il governo europeo ha poi risposto con altrettanta creatività: concedendo immediatamente all’Ucraina aggredita (e poi anche alla Moldavia) lo status di Paese candidato all’ingresso nell’Ue.
Una decisione insolitamente rapida e pienamente politica, che pur convergendo nell’identificazione di un avversario (l’aggressiva Russia di Putin) ha emancipato Bruxelles da Washington. Se si pensa ai cinque anni trascorsi, risulta evidente che le elezioni europee del 6-9 giugno prossimi non serviranno più solamente a misurare, all’interno delle piccole arene nazionali, le forze relative dei partiti; ma redistribuiranno un genuino potere politico in tutto l’assetto istituzionale dell’Unione.
È infatti vero che il Trattato di Lisbona dice che il Presidente della Commissione viene designato a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo, e quindi dai governi dei Paesi membri, ma dice anche che il Consiglio deve tenere conto dei risultati delle elezioni europee, e che il Presidente designato può entrare in carica solo se viene votato dalla maggioranza del Parlamento neoeletto. Il quale poi ha il compito di votare o respingere, sempre a maggioranza assoluta, l’intero Collegio dei commissari scelti dal Presidente eletto.
Questo meccanismo, introdotto dal Trattato di Lisbona, è il motivo per cui dal 2014 i partiti politici europei tendono a indicare agli elettori dei veri e propri candidati alla Commissione (gli Spitzenkandidat). Nel 2014 il Partito popolare europeo (Ppe) indicò il lussemburghese Jean-Claude Juncker, e dal momento che risultò il partito europeo di maggioranza relativa, Juncker venne conseguentemente indicato dal Consiglio ed eletto dal Parlamento.
Nel 2019 invece andò diversamente: il Ppe aveva candidato Manfred Weber, ma il Consiglio preferì indicare un’altra tedesca, Ursula von der Leyen, la quale anche per questo faticò a trovare una maggioranza all’interno del Parlamento. Per ottenere i voti necessari, Von der Leyen dovette conquistarsi il consenso di diverse forze politiche: alla fine riuscì a tenere insieme Popolari, Socialisti, Liberali e Verdi, ma concedendo soprattutto a questi ultimi diversi punti programmatici (non per nulla il Green Deal fu la prima decisione della nuova Commissione).
Se ci ricordiamo cosa accadde lo scorso giro capiamo quindi perché le elezioni europee non sono soltanto un momento di democrazia transnazionale da vivere con entusiasmo simbolico, ma un frangente “ultra politico”: di vera e propria redistribuzione del potere a tutti i livelli.
La Commissione è oggi una istituzione di fondamentale importanza per la vita civile del cittadino europeo, perché sulle materie delegate dagli Stati si configura quale vero e proprio governo dell’Unione (cui peraltro i trattati affidano addirittura il monopolio dell’iniziativa legislativa).
Poiché l’Unione è un progetto politico democratico, giustamente le nuove regole del Trattato di Lisbona hanno legato il governo europeo incarnato dalla Commissione alla volontà del demos che si esprime e si rappresenta nel Parlamento.
Rimane, è vero, una quota di potere a discrezione dei governi. Ma anche qualora – ed è probabile che sarà così – il Consiglio non indicasse nessuno degli Spitzenkandidat a maggior ragione il Parlamento peserà moltissimo: perché se – e solo “se” – l’asse Popolari-Socialisti-Liberali-Verdi avrà la maggioranza all’interno dell’assemblea i governi potranno indicare un candidato nel solco della maggioranza politica che ha guidato Ursula in questi 5 anni.
Se la maggioranza sarà diversa, sarà diverso il Presidente della Commissione, sarà diverso il Collegio dei Commissari, saranno diverse le iniziative politiche del governo europeo. La partita europea conta molto più della domestica verifica del potere relativo tra Salvini e Meloni.
Anche se, come abbiamo visto nella trasformazione di Conte I nel Conte II, ciò che avviene a Strasburgo anticipa ciò che avviene a Montecitorio. Quanta politica che ci attende il prossimo giugno! Quanta democrazia! Soprattutto se guardiamo ad altre zone del mondo dovremmo andarne fieri. Ed assumerci responsabilità conseguenti.
Ph. Guillaume Perigois © via Unsplash
Nicola Pedrazzi
Giornalista, redattore della rivista il Mulino, già corrispondente da Tirana per Osservatorio Balcani e Caucaso.