di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma.
Nel fuoco del pluridecennale dibattito sul conflitto israelo-palestinese sono coinvolte anche le Chiese cristiane. In questo articolo si formulano degli “appunti” su quali caratteristiche (non) dovrebbe avere una “postura ecclesiale”.
Nel fuoco dell’attuale (in realtà, pluridecennale) dibattito sul conflitto israelo-palestinese, vorrei formulare alcuni appunti sul compito della Chiesa e della teologia. Si tratta, come sempre, dell’intreccio tra un determinato parlare, un determinato tacere e un determinato agire, che non sono giustapposti, né gerarchizzati per importanza, bensì intrecciati in quella che potremmo chiamare una postura ecclesiale. Anche in questo caso, è più semplice partire dalle caratteristiche che tale postura non dovrebbe possedere.
Una postura ecclesiale dovrebbe evitare di riflettere, semplicemente, le opinioni politiche di una parte della chiesa: al contrario, essa dovrebbe presupporre l’esistenza di sensibilità profondamente diverse. Nella fattispecie, il fatto che una parte della Chiesa viene da una tradizione di solidarietà politica profonda con le istanze palestinesi e, almeno in parte, anche con le loro espressioni istituzionali, come l’Autorità nazionale palestinese, fin dai tempi di Arafat; un’altra parte dell’opinione pubblica ecclesiale ha coltivato per anni un rapporto politico e ideale con la visione sottesa allo Stato di Israele e alla sua lotta per la difesa della propria esistenza e indipendenza. Ciascuna delle due parti tiene o dovrebbe tener conto del punto di vista dell’altra. La tensione, però, è troppo consistente per poter essere superata mediante il ben noto schema: «pur prendendo atto di questo o quello, ripetiamo quanto pensavamo già prima». Troppo spesso la proposizione concessiva è utilizzata non per riconoscere le ragioni dell’altra parte, bensì per immunizzarsene preventivamente.
Una postura ecclesiale dovrebbe evitare, almeno in linea generale, di fondarsi su analisi geopolitiche: esse sono in genere opinabili e in ogni caso la comunità cristiana non sempre dispone delle competenze richieste per svilupparle.
Una postura ecclesiale dovrebbe evitare la pulsione a «dire comunque qualcosa»: è essenziale chiarire con precisione a chi ci si rivolge e perché, il che comprende valutare la praticabilità dell’obiettivo. Le Chiese, nella società attuale, sono troppo deboli per permettersi discorsi inefficaci: se parlano o agiscono, devono avere un obiettivo preciso e verificabile.
Una postura ecclesiale dovrebbe evitare un utilizzo superficiale di citazioni bibliche e di parole d’ordine che vorrebbero essere teologiche: la citazione appiccicata a un’argomentazione precostituita costituisce un abuso della Scrittura da parte di chi dovrebbe fondare su di essa il proprio annuncio. So per amara esperienza personale quanto sia difficile rimanere fedeli a questo proposito, ma la sua importanza giustifica ampiamente lo sforzo. Quando la Chiesa di Gesù cita la Scrittura, dev’essere consapevole di richiamarsi in tal modo alla parola di Dio stesso, assumendosi la responsabilità che ciò comporta.
Una postura ecclesiale è tendenzialmente scettica nei confronti di parole o azioni “a buon mercato”, che cioè soddisfano una umanissima esigenza di esprimersi, ma dimenticano che una parola che non giudica e converte anzitutto noi stessi/e, imponendoci scelte precise, è, come minimo, esposta al rischio di risultare futile. Chi parla in nome di Gesù Cristo non può permettersi la futilità.
Dopo aver evidenziato alcune almeno delle tentazioni più pericolose, proviamo a riflettere in termini positivi.
Una postura ecclesiale si fonda su un atteggiamento di ascolto della Scrittura e di preghiera. In esso, la comunità impara che il Signore non fornisce risposte prefabbricate né conferme delle nostre convinzioni, bensì ci pone di fronte a responsabilità spesso limitate (se un accordo di pace non sarà raggiunto domani, non sarà colpa nostra), ma precise. Ascolto biblico e preghiera impongono anche la sospensione almeno temporanea di reazioni istintive: ogni parlare e ogni agire trovano nel silenzio qualificato un terreno di sviluppo.
Una postura ecclesiale si pone in ascolto delle sorelle e dei fratelli cristiane/i direttamente coinvolti nella tragedia; non necessariamente per ripetere ciò che esse/i dicono, ma perché sa di non poter parlare senza di loro.
Una postura ecclesiale si pone in ascolto delle sorelle e dei fratelli ebrei e musulmani e delle loro espressioni istituzionali anche in Italia, nella fedeltà a un dialogo ormai consolidato. Anche in questo caso, non si tratta necessariamente di fare proprie le posizioni altrui, bensì di sapere che il dialogo passa anche per un ascolto che può essere estremamente difficile.
Una postura ecclesiale sa che l’idea, effettivamente feconda, di equivicinanza non costituisce una nuova parola d’ordine da sbandierare all’occorrenza, bensì un atteggiamento spirituale da costruire giorno per giorno, il che comporta la costante e dolorosa messa in questione di punti di vista che ci sono cari.
Una postura ecclesiale include sempre l’azione solidale nei confronti delle vittime: essa detiene la semplicità dell’obbedienza resa a Gesù, non richiede analisi particolari, non può pretendere di offrire soluzioni, impone l’impegno di risorse umane e finanziarie, è consapevole della propria precarietà, ma anche della propria efficacia.
Una postura ecclesiale non esclude affatto la denuncia, anzi, molto spesso la richiede. Poiché il soggetto che parla è la chiesa cristiana, anche la denuncia sarà nel nome del Dio di Gesù Cristo e non di qualche tesi politica. In questo caso deve risultare chiaro, anzitutto, perché e in che senso il Nome di Dio è invocato in tale contesto. In secondo luogo, dev’essere chiaro chi è oggetto della denuncia: non può trattarsi, semplicemente, di «chi lavora per la guerra», già solo per il fatto che tutti i peggiori guerrafondai hanno sempre sostenuto di essere per la pace e spesso hanno fondato movimenti o «conferenze» orientati alla loro idea di pace.. Terzo: dalla denuncia devono scaturire conseguenze, che coinvolgono chi parla, chi ascolta, chi è oggetto della denuncia stessa.
Un’ultima parola sulla vocazione profetica della chiesa. Certamente Gesù è stato anche un profeta e, anzi, secondo la classica teologia protestante, ha svolto questo servizio in modo eminente (insieme a quelli di re e di sacerdote); esso, dunque, coinvolge anche la chiesa. Quest’ultima deve però essere prudente nei confronti di una certa libido prophetandi che ogni tanto sembra possederla. I profeti e le profetesse, di solito, sono tali malgrado la loro volontà, a motivo di un’investitura irresistibile e costosa da parte di Dio. Il desiderio di «profetare» non è di per sé illegittimo, ma la prudenza consiglia di assumere, come primo e fondamentale obiettivo, quello di dire cose non inopportune e possibilmente sagge. Se a poi Dio piacerà effondere il suo Spirito di profezia, la sua Chiesa risponderà con un «Amen».
Ph. chiesa presbiteriana © K. Mitch Hodge via Unsplash
Fulvio Ferrario
Professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese
di Teologia di Roma.