di Giorgio Gomel. Economista, è membro dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), del Comitato direttivo di Jcall-Italia e dell’organizzazione Alliance for Middle East Peace.
Se nella guerra tra Hamas e Israele la questione più urgente concerne gli interventi umanitari volti ad assistere la popolazione di Gaza, sono molti i nodi ancora irrisolti, tra cui le trattative per la riconsegna degli ostaggi e come procedere per una trattativa di cessate-il-fuoco. Ma, quando cesseranno le ostilità, sarà possibile trovare una risoluzione equa e a lungo termine del conflitto?
Al di là della cruda conta delle vittime nell’una e nell’altra delle parti in conflitto, dei lutti e delle sofferenze di gente segnata per la vita dalla violenza, la mancanza di una strategia di lungo termine in ognuno degli antagonisti attanagliati in un conflitto nefasto sconcerta l’osservatore e ancor più sgomenta chi come noi partecipa empaticamente del dramma dei due popoli.
La questione più urgente concerne gli interventi umanitari volti ad assistere la popolazione di Gaza, fra cui molti civili, oppressi dallo stesso regime di Hamas, costretti ad abbandonare le case, a dirigersi e affollarsi nel Sud della Striscia di Gaza, poi spinti dall’orrore della guerra a ritornare verso il Centro e il Nord, territori devastati e in parte inabitabili, e quindi l’ingresso a Gaza di aiuti sanitari, alimentari e materiali per contenere miseria, carestia ed epidemie denunciate dalle agenzie internazionali. Ciò è anche parte della difficile trattativa in corso circa il cessate-il-fuoco e la liberazione dei 133 israeliani ancora prigionieri a Gaza in una condizione tragicamente incerta: 34 di loro sono riconosciuti ormai non più vivi da Israele, altri ancora sarebbero morti sulla base di parziali, ulteriori testimonianze.
UNA “MALEFICA ALLEANZA”
Il trauma inflitto sulla psicologia degli israeliani dall’obbrobrio di Hamas ha generato, come sottoprodotto in parti cospicue dell’opinione pubblica, un anelito all’annientamento del nemico, alla violenza di massa vista come legittima e necessaria a restaurare una “deterrenza” perduta sui confini del Paese e al suo interno, a prevenire il ripetersi di episodi efferati dello stesso genere. I palestinesi ne portano gravi responsabilità, in particolare il regime dispotico e militarizzato di Hamas. Ma Israele molto avrebbe potuto fare e forse ancora potrebbe con un futuro governo, formato da una possibile leadership locale o con il ritorno a Gaza dell’Autorità palestinese, nel corso di una complessa e costosa opera di ricostruzione finanziata dalla comunità internazionale.
Si era formata, nei fatti, una “malefica alleanza” fra Hamas e Netanyahu, che resta l’artefice primo di una strategia rivolta da anni a separare Gaza e Cisgiordania, Hamas e Autorità palestinese, al fine di evitare un negoziato di pace che contempli la fine dell’occupazione e la nascita di uno Stato palestinese. Una strategia mirante a contenere Hamas ma senza rovesciarne il regime, offrendo come incentivo l’afflusso di fondi finanziari, soprattutto qatarini, e limitati allentamenti del blocco in cambio di quiete. L’apparato militare così esteso in Cisgiordania a protezione delle colonie e dello scellerato processo di annessione de facto di parti rilevanti di quel territorio aveva forzato l’esercito a ridurre drasticamente le difese lungo i confini settentrionali con Hezbollah e meridionali con Hamas.
La sicurezza di Israele non può fondarsi però sulla mera forza delle armi; esige si la sconfitta di Hamas ma anche la convinzione della popolazione palestinese che dall’azione nonviolenta e dalla trattativa può scaturire un futuro decente. Le azioni militari al più agiscono da deterrente nel breve periodo, ma mietono vittime civili, rafforzano la fascinazione per il fanatismo fondamentalista, per un meccanismo perverso di imitazione, nelle generazioni più giovani. Infine isolano Israele dalla comunità delle nazioni per l’eccesso di violenza contro i civili pur nell’esercizio del diritto di autodifesa. Tale diritto è legittimo, ma la questione è come esercitarlo così come prescrivono le leggi di guerra e il diritto internazionale umanitario che regola i conflitti armati sulla base delle Convenzioni dell’Aja del 1907 e delle 4 Convenzioni di Ginevra del 1949.
UNA NUOVA LEADERSHIP PALESTINESE?
Il secondo problema concerne il governo della Striscia quando l’operazione militare sarà conclusa. Dovrebbe essere esclusa dalle opzioni una rioccupazione, neppure per un periodo limitato, come negli anni fra la conquista nella guerra del 1967 e lo sgombero nel 2005 . Nè si può immaginare l’irrompere salvifico di un Deus ex machina arabo, composto da una coalizione che includa Egitto, Emirati e Arabia Saudita, disposti ad amministrare due milioni di persone affrancando così Israele da dilemmi e ostacoli.
Le uniche opzioni realisticamente possibili sono, dopo un periodo interinale gestito da una forza internazionale di interposizione, l’emergere di una nuova leadership palestinese in loco, antagonista a Hamas e aliena alla sua ideologia islamista, oppure il ritorno di Gaza sotto il controllo dell’Autorità palestinese di Ramallah che ne fu esclusa violentemente nel 2007. Un iter difficile con una Autorità palestinese delegittimata nell’opinione pubblica, accusata di autocrazia, corruzione e connivenza con Israele occupante: una soluzione possibile, ragionevole forse nel lungo termine, come gli stessi Accordi di Oslo del 1993 prefiguravano, con un legame fisico e politico fra Gaza e Cisgiordania per un futuro Stato di Palestina autonomo.
Lo stesso rifiuto da parte di Israele, conclamato più volte dal governo Netanyahu, rispetto al riconoscimento dello Stato di Palestina da molti Paesi del mondo – si noti che fra i Paesi della Ue dieci dell’Est europeo nonché la Svezia lo hanno fatto, mentre Spagna, Irlanda e Belgio sembrano disposti ora a tale atto – affermando che alla luce degli orrori del 7 ottobre esso sarebbe un “premio” ai terroristi di Hamas, conferma e accentua il suo isolamento diplomatico, anche nell’Occidente più benevolo. Un isolamento a cui un governo dominato da partiti e movimenti sciovinisti e integralisti reagisce con accuse minacciose rivolte in particolare agli organismi internazionali come l’Onu e diverse sue agenzie. Un senso di solitudine solipsistica che rivela come anche uno “Stato ebraico” non significhi di per sé una garanzia di sicurezza per i suoi abitanti, il diritto a esistere in pace e pienamente integrato nel Medio Oriente, la rimozione di una condizione ebraica di perenne precarietà. In un certo senso, il trauma ha messo in forse due elementi chiave della Storia e della coscienza di sé del Paese: la fiducia nella forza delle armi e quella nelle sue ragioni ideali riconosciute dall’opinione pubblica del mondo.
Ambedue ora gravemente compromesse. Così come l’assioma che la forza di deterrenza di Israele da un lato e la prudenza strategica dell’Iran avrebbero evitato un’estensione del conflitto al Nord di Israele con le milizie Hezbollah in Libano e quelle sciite legate all’Iran in Siria, Iraq e Yemen.
EQUIVICINANZA
Il trauma di questi mesi rivelerà alla coscienza di Israele come sia illusoria l’opinione che il conflitto si possa risolvere senza porre fine all’occupazione e alla convinzione di potere reprimere le aspirazioni palestinesi a uno Stato degno di questo nome. O forse all’opposto indurirà ancor più gli israeliani convinti che i palestinesi tutti siano come Hamas e che un loro Stato lungo i 600 km circa del confine orientale di Israele sia un pericolo esiziale.
Quale infine una posizione equilibrata di un mondo progressista attento ai valori umanitari? Così come è giusto opporsi al permanere dell’occupazione israeliana della Cisgiordania , nonché ribadire l’urgenza di una risoluzione equa e a lungo termine del conflitto che avviluppa da oltre un secolo due popoli su quel minuscolo lembo di terra conteso, uno stesso imperativo etico impone una condanna ferma dell’attacco omicida di Hamas contro civili e del sequestro di ostaggi. Lo affermava un manifesto reso pubblico all’inizio del 2024 da intellettuali e attivisti per la pace israeliani, ebrei e arabi (come la Pro- Human Camp Network and Amnesty International Israel), allarmati dalla virulenza anti israeliana di posizioni espresse e manifestazioni svoltesi negli Stati Uniti e in diversi Paesi europei. Mesi dopo la preoccupazione resta. In alcuni casi non si è condannata la violenza, asserendo che terze parti non hanno il diritto di giudicare le azioni degli oppressi; altri hanno sottovalutato la gravità del trauma che affligge Israele, argomentando che lo stesso Israele ha prodotto con le sue azioni detta tragedia. Altri “utili idioti”, anche nelle Università italiane, fagocitati da un presunto “antioccidentalismo”, rigettano Israele come stato “coloniale” o “post coloniale” fingendo di ignorare nel contempo il sadismo infame e l’integralismo omicida di Hamas. Per altri ancora l’eccidio di massa di israeliani il 7 ottobre è stato un motivo perverso per celebrare.
Forse il principio cui dovremmo ispirarci in queste drammatiche circostanze è quello della “doppia lealtà” – un’accusa speciosa spesso rivolta alla sinistra, un’imputazione di tradimento. Al contrario affermare l’illiceità della violenza contro i civili, da una parte e dall’altra, rigettare la disumanizzazione del “nemico”, riconoscere pur con fatica le ragioni dell’altro, devono essere i principi informatori di un autentico impegno di pace.
Ph. Netiv HaAsara, Israele © Levi Meir Clancy/ CopyLeft
Giorgio Gomel
Economista, è membro dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), del Comitato direttivo di Jcall-Italia e dell’organizzazione Alliance for Middle East Peace.