di Brunetto Salvarani. Teologo, Facoltà Teologica dell'Emilia-Romagna
La ripresa del conflitto israelo-palestinese dal 7 ottobre scorso s’innesta in una spirale di odi e risentimenti reciproci che sta infettando le vocazioni autentiche dell’Ebraismo e dell’islam. Oltre al numero enorme di vittime, feriti e sfollati, il suo lascito malato è l’ulteriore benzina fornita ai fondamentalisti delle due parti, idolatri rabbiosi votati alla narrativa della paura e della violenza sistematica.
È il 1991: un giovane docente alla Sorbona mette a rumore il mondo della sociologia religiosa firmando un libro dal titolo fulminante, La rivincita di Dio. Il successo che ottiene riguarda non solo la proclamazione dell’uscita da un paradigma a lungo apparso inscalfibile, secondo cui la progressiva modernizzazione delle società occidentali corrisponde a una riduzione crescente del ruolo pubblico delle fedi. La seconda notizia fornita da Gilles Kepel è infatti che il timbro di quella rivincita è cruento, impietoso e autoreferenziale: gli esempi a supporto di tale tesi, a partire dalla rivoluzione khomeinista in Iran del 1979, sono molti e in aumento. Sì, il Dio che si riprende il centro della scena planetaria somiglia a quello che nel racconto biblico è detto Dio degli eserciti.
Nei trent’anni seguenti, quante volte siamo stati costretti a prenderne atto, non solo in ambito islamico, ma anche ebraico, cristiano, hinduista, e così via? E questo, nonostante voci altissime si siano levate a denunciare il corto circuito in atto: si pensi, ad esempio, al Processo conciliare ecumenico Basilea-Graz-Sibiu (1989-2007), alla Charta Oecumenica stilata nel 2001 o al Documento di Abu Dhabi, firmato dal papa e da una delle massime cariche dell’Islam sunnita nel 2019. La ripresa del conflitto israelo-palestinese dal 7 ottobre scorso s’innesta appieno in quel trend perverso, in una spirale di odi e risentimenti reciproci che sta infettando le vocazioni autentiche dell’Ebraismo e dell’Islam. Oltre al numero enorme di vittime, feriti e sfollati, il suo lascito malato è l’ulteriore benzina fornita ai fondamentalisti delle due parti, idolatri rabbiosi votati alla narrativa della paura e della violenza sistematica. Lo spazio fisico dello scontro, quel lembo di terra in cui da secoli si mescolano alla rinfusa ansie apocalittiche e deliri messianici, brutalità e pietismi di tre sentieri diversamente rivolti al Dio di Abramo: il che rende realistici esiti catastrofici e più arduo qualsiasi sforzo verso una pace duratura. Educarci a guardare il dolore dell’altro, non solo al nostro, ecco l’unica ricetta possibile per sortirne, avvertiva il cardinale Carlo Maria Martini da Gerusalemme, scrivendo per il Corriere della sera, giusto vent’anni fa: «Certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l’idolo dell’odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di sé stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa… Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace».
Alla luce di questo quadro sommario, propongo tre considerazioni. La prima la definisco l’apocalisse del conflitto israelo-palestinese. Perché ci troviamo in una situazione apocalittica, cioè rivelativa, letteralmente: una situazione che smaschera le contraddizioni in cui è immerso il nostro faticoso con-vivere. Ne sottolineo tre: la debolezza, anzi l’impotenza assoluta, della politica; la fragilità delle istituzioni mondiali, o di quelle che ambirebbero a rappresentarci su scala planetaria; la terza, quella che, per i miei interessi, mi colpisce di più e mi inquieta non poco, la forza preoccupante delle religioni, ma di quali religioni? Le religioni identitarie e integraliste, appunto, quelle che il sociologo Oliver Roy chiama felicemente “le religioni della santa ignoranza”. Il che è dimostrato anche dal fatto che un conflitto come quello israelo-palestinese, e prima ancora arabo-israeliano, per decenni non ha conosciuto alcuna connotazione etnico-religiosa: era un conflitto sul modello del nostro Risorgimento, per l’indipendenza di due popoli in una prospettiva di decolonizzazione, la Gran Bretagna che lascia quei territori, con tutta storia che conosciamo. Ora non più.
UN NUOVO SCONTRO DI CIVILTÀ
Dalla metà degli anni Ottanta, con la nascita di Hamas da una parte e del partito religioso ebraico Shas dall’altra, incubatore dei futuri Potere ebraico e Sionismo religioso, è diventato un conflitto etnico-religioso, molto più pericoloso, come si può cogliere guardando il governo attuale di Israele, la cui componente ultraortodossa e fondamentalista è particolarmente forte e loquace; e dall’altra parte il paradosso del gruppo dirigente di Hamas, che il 7 ottobre 2023 si fa ritrarre in un video mentre guarda soddisfatto quello che ha prodotto in Israele mentre prega inginocchiandosi sui tappeti della stanza. È un video che abbiamo visto tutti, un’immagine paradossale, perché il popolo palestinese si è sempre autodefinito il più laico tra quelli arabi, e storicamente è stato così. Questa curvatura etnico-religiosa del conflitto è molto grave. E conferma, una volta di più, come le religioni possano essere ambasciatrici di pace, ma anche detonatrici di guerra, brutalità e violenza. In nome di Dio…
Seconda considerazione: gli effetti collaterali. Interroghiamoci su quali siano gli effetti collaterali del conflitto israelo-palestinese. Ne scorgo parecchi: fra i più rischiosi, il ripristino nei mass media e nel nostro immaginario collettivo dello schema dello “scontro di civiltà”, quello che un po’ ingenuamente credevamo di aver ormai messo da parte, grazie anche al costante rifiuto di esso da parte di papa Francesco. Il fatto è che in una manciata di giorni, dall’attacco di Hamas a Israele alla reazione militare israeliana tuttora in corso al di là delle fragili tregue, siamo ripiombati nel clima di guerre di religione, quello che ha segnato il post 11 settembre 2001 e l’irruzione sulla scena mondiale dell’Isis anche nel cuore dell’Europa. Di riflesso, immediatamente, i già faticosi processi di dialogo interreligioso e l’integrazione virtuosa fra cristiani e musulmani ma non solo, anche in Italia, hanno subito una brusca frenata, come a dar ragione a quanti li considerano pie illusioni, o cedimenti alle ragioni del nemico. Del resto, anche in Ucraina il patriarca di Mosca Kirill, con la sua ideologia etnico-religiosa del Russkij mir (“il mondo russo”) e la sua idea, non nuova, di guerra santa, vanno nella stessa direzione. Lì lo scontro sarebbe tra l’Occidente decadente e corrotto e la santità incontaminata del modello di vita orientale. Eppure un minimo di sforzo di memoria ci aiuterebbe a paventare il ritorno a una fase che ha favorito tra l’altro le catastrofiche guerre in Iraq e in Afghanistan, dopo l’11 settembre… purtroppo, come ricorda la Bibbia (Salmo 49,21), «l’uomo nel benessere non comprende, è come gli animali che periscono». E allora la domanda non può che essere: saremo ancora una volta vittime di un accecamento che impedisce il discernimento? Questa mi sembra l’interrogativo chiave nel quadro dell’apocalisse attuale.
IL SOGNO E LA SPERANZA
Terza considerazione, in direzione di una speranza realistica. La definirei la profezia di Neve Shalom – Wahat al-Salam, il villaggio della pace fondato dal domenicano padre Bruno Hussar nel 1972, a metà strada fra Gerusalemme e Tel Aviv, per mostrare che convivere tra diversi, ebrei e palestinesi, è difficile ma non impossibile: e in questo momento il villaggio, la sua storia, la vicenda esistenziale di Hussar, uomo delle quattro identità e ba’al chazon (“uomo di sogni”), sono tesori preziosi ai quali guardare, imparando cosa significa stare simbolicamente sul confine, in maniera armonica e arricchente per tutti. Ricordo le principali istituzioni del villaggio, a cominciare dalla scuola, la prima in cui in Israele si è insegnato in ebraico e in arabo; poi la scuola per la pace, quella che padre Bruno sosteneva dovesse fungere da contraltare alle accademie militari e insegnare la pace e non la guerra. È il segnale che l’unica strada per arrivare a una pace durevole è investire nell’educazione e nella formazione, nella scuola, nella cultura, aprendosi al confronto con l’altro nella conoscenza reciproca. Ecco, sono questi gli elementi chiave del successo del villaggio, che tiene nonostante tutto, anche in questi mesi tremendi. I problemi e le questioni, ovviamente ci sono anche lì, ma lì ci si forza di gestirli: il tema è proprio quello di gestire il conflitto, grazie all’educazione, grazie alla conoscenza, grazie all’incontro, e, citando papa Francesco, grazie a un quotidiano e paziente camminare insieme. Ecco, gli abitanti del Villaggio ormai sono abituati a camminare insieme, si sono allenati a farlo, pagando prezzi alti ma necessari. Infine, non posso non chiudere su quella che ho sempre considerato l’intuizione più profetica di padre Bruno: al posto di una chiesa, di un tempio, di una moschea, di una sinagoga, nel villaggio c’è la cupola bianca di “Dumia-Sakina”. Dumia vuol dire “silenzio” in ebraico, come sakina in arabo.
È una scelta che ha fatto per tanti motivi, anche perché aveva appreso che Gerusalemme purtroppo è l’ultimo posto in cui si riesca a fare decentemente del dialogo interreligioso, e il primo in cui le religioni si mostrano focolai di violenza. Da qui, questo elogio del silenzio: quel silenzio di cui oggi ci sarebbe un grande bisogno, perché il silenzio è una sosta e l’occasione per guardarsi dentro, per riflettere su quanto sta accadendo e su quanta disumanità è in atto. Come aveva intuito Bruno Segre, scomparso l’anno scorso, a lungo presidente dell’Associazione italiana degli Amici di Neve Shalom – Wahat al-Salam, parlando del conflitto israelo-palestinese che conosceva bene: «Tutti quei sassi sui quali si commuove mezzo mondo – ebrei, cristiani e musulmani – li renderei volentieri innocui facendone un ideale grande museo. La vita di un bambino, che sia ebreo, arabo, buddista o figlio di uno sciamano, vale più di tutta quella cianfrusaglia sulla quale ci stiamo sbranando da generazioni. È ora di finirla. Soprattutto in ragione del fatto che il mondo, per chi non se ne fosse accorto, è una barca che sta affondando, e su quella barca stiamo navigando tutti insieme».
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Brunetto Salvarani
Teologo, Facoltà Teologica dell'Emilia-Romagna