di Davide Lerner. Giornalista
Le proteste nei campus statunitensi stanno mettendo in evidenza le diverse spaccature della società americana. Una situazione le cui conseguenze potrebbero riverberarsi sulla tornata elettorale di novembre.
Los Angeles, davanti all’edificio Royce Hall, nel cuore del campus della Ucla, University of California, il prato solitamente impeccabile porta ancora i segni delle tende dell’accampamento pro-Palestina smantellato all’inizio di maggio dai poliziotti della California Highway Patrol. Per l’ateneo si aggirano gli agenti di Apex Security Group, una società di sicurezza privata incaricata di prevenire nuove occupazioni. Una presenza, storicamente, più unica che rara.
A rendere più volatile la situazione in questo ateneo c’è il fatto che sia pubblico e aperto. Non ci sono cancelli con personale che richiede un identificativo all’ingresso, come in altre università del Paese, il che ha reso più facile la partecipazione di avventori esterni nelle proteste studentesche su Gaza. Martedì 11 giugno gli attivisti si sono scontrati con la polizia durante un tentativo di rilanciare la protesta sul prato. A maggio, il giorno prima dell’intervento delle forze dell’ordine per rimuovere le tende, si erano verificati tafferugli fra dei manifestanti filo-israeliani e i contestatori barricati nel perimetro dell’accampamento. Ma si tratta di rari episodi di violenza nell’ambito di un movimento su scala nazionale quasi del tutto pacifico, che ha interessato decine e decine di campus negli Stati Uniti. A far discutere, tuttavia, è stata la retorica degli studenti, infiammata dall’indignazione per i continui bagni di sangue nella striscia di Gaza.
L’EPICENTRO DELLA PROTESTA
L’epicentro della protesta è stato sulla East Coast, alla Columbia University di New York. Gli studenti dell’ateneo Ivy League – un gruppo di otto università d’élite nel Nord-Est degli Stati Uniti – più prestigioso della Grande Mela, frequentato in passato da Barack Obama e Ruth Bader Ginsburg, sono stati i primi a lanciare questa primavera l’idea delle tende, un’allusione alla condizione di profughi di milioni di palestinesi. E fra i primi ad inscenare proteste all’inizio della guerra lo scorso autunno. Giovedì 12 ottobre, nemmeno una settimana dopo l’attacco di Hamas, una folla di studenti si era radunata davanti alla Butler Library, al centro del campus. Ero rimasto sorpreso quando dalla manifestazione era partito per la prima volta il coro «From the River to the Sea, Palestine will be Free», l’ormai arcinoto «Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera». Sarebbe divenuto un classico. A pochi giorni da un tentativo di spazzare via le comunità israeliane alla frontiera con Gaza, lo slogan suonava come un augurio che la sanguinosa offensiva potesse continuare. Difficile, in queste circostanze, convincere gli studenti con legami affettivi con Israele che si trattasse soltanto di un appello all’estensione di pari diritti anche alla popolazione palestinese.
È proprio in questi giorni che si creano le prime spaccature all’interno dell’università. In classe, subito dopo il 7 ottobre, studenti critici di Israele contestano il termine “terroristi” per descrivere i militanti palestinesi. E criticano i media che non “contestualizzano” sufficientemente l’attacco. Prima ancora che sulla striscia si abbatta la tremenda risposta di Tsahal – “l’armata di difesa d’Israele”, cioè l’esercito –, che avrebbe fatto decine e decine di migliaia di vittime palestinesi, non considerano le vittime civili israeliane meritevoli di empatia e solidarietà.
A Harvard, un comunicato di più di 30 gruppi studenteschi dichiara Israele unico responsabile della violenza in corso, senza citare Hamas. Il movimento islamista, spiega una studentessa in un documentario dell’emittente televisiva statunitense Pbs, altro non è che una “manifestazione della struttura” di oppressione israeliana.
Per molti studenti ebrei, però, il testo “cancella qualsiasi responsabilità individuale” e “condanna le stesse vittime” dell’attacco, giustificandone la ferocia. La delegittimazione di Israele come “entità abusiva”, quasi 80 anni dopo la sua fondazione, viene interpretata come la negazione del diritto di milioni di israeliani a esistere lì. Nel clima sempre più rovente della guerra di Israele a Gaza, con l’aumentare vertiginoso delle vittime civili palestinesi nel corso dei mesi, sui campus le parti articolano le proprie posizioni schierando esperti di legge e intellettuali. La spaccatura è fra chi sostiene la gravità della situazione a Gaza giustifichi gli slogan più estremi, che sarebbero protetti dai principi di libertà d’espressione. E chi li considera inaccettabili in quanto violenti e offensivi per una parte della popolazione universitaria. Fra chi ritiene conti l’intenzione di chi li pronuncia, in quanto interprete ultimo del loro significato, o il loro impatto, cioè il modo in cui vengono percepiti.
Nella Columbia University si iniziano a sentire slogan del tipo «Non vogliamo due Stati, vogliamo tutto il territorio del 1948», «globalizziamo l’intifada», «La Palestina è araba», «Palestina libera». Nell’accampamento in aprile si sarebbe letto: «Gloria a chi fa assaggiare l’amarezza all’occupante», «Il paradiso è solo all’ombra della spada». Il termine “sionista”, per certi versi anacronistico, viene utilizzato come un insulto. Nei picnic degli studenti nei parchi di New York, anche fra quelli non militanti o legati personalmente al conflitto, si sentono racconti come «l’altro giorno, usando una app di incontri, sono finita a prendere un drink con un “sionista”. Mio dio, me ne sono subito andata».
UNA SPACCATURA INSANABILE
Dall’altra parte c’è chi rimane totalmente cieco di fronte ai massacri di bambini, civili, giornalisti, operatori umanitari, e alla distruzione di monumenti storici nella striscia di Gaza. E chi sfrutta gli slogan per tacciare l’intero movimento di “terrorismo” e “antisemitismo”. Chi crede nel diritto di Israele a esistere ma è critico di mezzo secolo di occupazione, e sconvolto dai fatti di Gaza, non riesce a trovare spazi di espressione nel mezzo.
Mentre il movimento punta il dito contro la connivenza dell’amministrazione Biden con la guerra totale del governo Netanyahu, i repubblicani, in particolare i rappresentanti legati all’elettorato evangelico, ne approfittano per attaccare gli atenei universitari, tradizionalmente di area liberale, accusandoli di precipitare in un vortice di “relativismo etico”.
Si schiera con la protesta solo l’ala progressista del partito democratico, quella di Alexandria Ocasio-Cortez e Ilhan Omar. Lo speaker della Camera Mike Johnson fa una visita minacciosa alla Columbia. Biden fa finta di nulla il più a lungo possibile, e alla fine dichiara «il diritto alla protesta non è diritto al caos».
Le presidenti di Penn University, Elizabeth Magill, e di Harvard, Claudine Gay, sono costrette a dimettersi a causa degli scivoloni durante un’udienza al Congresso sul rischio di antisemitismo nei campus. Alla domanda se invocare il genocidio degli ebrei violi le regole su bullismo e harassment nel suo ateneo, Gay risponde «è possibile ma dipende dal contesto» e bisogna vedere se la minaccia «sia indirizzata o meno a un individuo». Le due scelgono di articolare risposte strettamente giuridiche nel contesto di un’udienza di forte impatto emotivo e mediatico, finendo al centro di una bufera che si rivela fatale.
Nemat “Minouche” Shafik, la presidente della Columbia University, era all’estero nel giorno dell’udienza. Ma anche il suo momento di fuoco sarebbe arrivato. Mercoledì 17 aprile a Washington, non può sfuggire a una seduta presso una commissione del Congresso, dominata da repubblicani ostili e restii ad accettare qualsiasi distinzione fra protesta anti-israeliana nel contesto della guerra di Gaza e antisemitismo. Lei la sfanga, traendo lezioni dalla disavventura delle sue colleghe. Ma la bufera la attende a New York, dove gli studenti, in occasione della sua udienza, hanno lanciato il primo accampamento pro-Palestina. La Columbia University è un’istituzione privata, ciò significa che è libera di scegliere autonomamente dove tracciare i limiti della libertà di espressione e di protesta dentro il perimetro dell’ateneo. Fuori, negli spazi pubblici, il primo emendamento garantisce libertà di parola pressoché illimitata. Il fatto di essere un’istituzione privata significa anche che l’amministrazione deve invitare le forze dell’ordine sul campus se ritiene necessario un loro intervento. Il 18 aprile Shafik chiede al New York Police Department (Nypd) di smobilitare l’accampamento, piegandosi alle pressioni della politica. Ma si rivela un errore strategico: una componente importante della popolazione universitaria la accusa di dissacrare la tradizione liberale del campus. La presidente ottiene un effetto boomerang: l’accampamento rinasce nel prato di fianco, più grande e combattivo di prima, e i detrattori tornano ad accusarla di tollerare un’atmosfera ostile agli studenti ebrei o vicini a Israele. A rischio c’è da una parte la salvaguardia degli importanti contributi federali all’ateneo, e dei rapporti con donatori privati influenti che minacciano di sospendere i propri contributi. Dall’altra il rapporto con professori e studenti, e la reputazione dell’università come avanguardia a tutela della libertà di parola e del pensiero liberale.
Le richieste dei manifestanti sono di rivedere i legami fra Columbia e Israele, revocare misure adottate contro singoli studenti attivisti, scandagliare gli investimenti dell’endowment per verificare non ci siano criticità rispetto alla guerra su Gaza. In altri atenei le parti riescono a mediare. Ma a Columbia si va verso lo scontro aperto. Il 30 aprile gli studenti occupano Hamilton Hall, un edificio che era già stato al centro della protesta nel 1968. L’indomani gli agenti ritornano in forze. Con un’operazione scenografica, estraggono i contestatori dall’edificio Hamilton e rimuovono l’accampamento. Shafik questa volta chiede agli uomini del Nypd di rimanere sul campus fino al 17 maggio, due giorni dopo le cerimonie di graduation (la principale viene comunque cancellata). Un tentativo di rilanciare l’accampamento a giugno viene velocemente soffocato.
Pochi anni fa sul campus infuriava un altro dibattito, quello sulla cancel culture. All’epoca erano le destre ad invocare la libertà di espressione. I progressisti si esprimevano a favore della rimozione di monumenti o riconoscimenti dedicati a personaggi celebri che si erano macchiati di razzismo. Un’ideologia che i conservatori liquidavano come woke, cioè politically correct in modo estremo, anti-storico e “fastidioso”. A Columbia, per esempio, una statua di Thomas Jefferson, padre fondatore americano ma anche proprietario di oltre 600 schiavi, rischiava di venire rimossa, o perlomeno “contestualizzata” da una nuova targa.
Le proteste di Gaza hanno anche messo in evidenza una spaccatura generazionale. Gli americani over 40-50, memori delle origini “umili” di Israele, della sua nascita sull’onda delle persecuzioni e della Shoah come Paese di rifugiati, e delle sue guerre per la sopravvivenza nei primi decenni di esistenza precaria, mantengono posizioni solidali con lo Stato ebraico. Ma i sondaggi mostrano come le generazioni più giovani, testimoni degli ultimi due o tre decenni di conflitto, vedano Israele come il “bullo” della regione medio-orientale, come un Paese ricco e avanzato, occupante dei palestinesi, padrone ostile dei cieli di Libano e Siria, fornitore di armamenti e tecnologie a regimi autocratici in giro per il mondo. Spesso proiettano sul conflitto tensioni locali, come quelle fra la maggioranza bianca e la minoranza afroamericana, che rappresenta circa il 13% della popolazione. I giovani neri presi di mira dalle forze dell’ordine e rappresentati in maniera sproporzionata nelle carceri del Paese rivedono l’epoca delle leggi discriminatorie Jim Crow – quelle che tra il 1870 e il 1960 sostennero una feroce gerarchia su base “razziale” negli Stati del Sud – nella segregazione degli spazi della Cisgiordania, e nella violenza delle forze di sicurezza israeliane. Palestinesi e israeliani diventano, in senso lato, rappresentanti di oppressi e oppressori. Ecco allora che Gaza, a novembre, potrebbe avere un impatto importante anche sulle presidenziali.
Ph. Usa © Manny Becerra/ CopyLeft
Davide Lerner
Giornalista